Un nuovo progetto, e anche difficile da definire, occuperà il palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma alla ripresa autunnale, dal 10 al 15 settembre 2019. Il pubblico potrà assistere a una nuova esperienza artistica, al dialogo tra le grandi personalità creative dello scultore americano moderno Alexander Calder (1898-1976) e dell’artista sudafricano contemporaneo William Kentridge (nato a Johannesburg nel 1955). Questo evento offre la possibilità di vedere nuovamente in scena uno dei lavori di Alexander Calder creato per l’Opera di Roma nel 1968, unica produzione teatrale ideata interamente da Calder, Work in Progress sarà in scena per la terza volta dopo diciassette anni dalla sua prima esecuzione. In occasione di questo ritorno William Kentridge, e in dialogo con Calder, presenterà una sua nuova produzione artistica, nata dalla sua collaborazione con il Teatro per la messa in scena della Lulu di Alban Berg nel maggio 2017.
«Ampliare i confini del teatro musicale è una delle sfide che vuole lanciare il Teatro dell’Opera di Roma. – dichiara il sovrintendente Carlo Fuortes – È per questo che abbiamo chiesto a William Kentridge, uno dei maggiori artisti contemporanei, di ideare, dandogli carta bianca, una sua “Opera d’arte” da mettere in scena insieme al lavoro che un altro grande artista moderno, Alexander Calder, creò appositamente per il Teatro Costanzi nel 1968».
Alexander Calder, molto più noto per i suoi mobile, realizzò per il Teatro dell’Opera di Roma, l’11 marzo 1968, Work in Progress. Commissionato dall’allora direttore artistico Massimo Bogianckino e con la regia di Filippo Crivelli, che torna a metterlo in scena più di cinquant’anni dopo, questo lavoro rimane unico nella storia del teatro. Un esperimento artistico nato dalle idee e dai concetti elaborati in una lunga carriera, Work in Progress è un mondo interamente disegnato da Calder. Affascinato dall’idea di un lavoro teatrale fino dagli anni Trenta e dopo aver collaborato con artisti come Martha Graham e Earle Brown, Calder applica qui il proprio linguaggio drammaturgico a delicate e poetiche finalità estetiche. Il suo balletto senza danzatori è pieno di momenti che sono ricchi di sfumature inaspettate, e che comprendono momenti quasi psichedelici di visualizzazione del mondo naturale, arabeschi dinamici con i ciclisti in scena e un finale glorioso con le forme che si muovono sul palcoscenico.
Calder arrivò a Roma nel dicembre 1967 per un soggiorno di due settimane, ebbe il suo laboratorio in uno spazio del teatro, dove creò pitture a inchiostro e ad acquerello e sculture che dovevano poi essere riprodotte in scala per Work in Progress. Scelse infine un mix di musica, registrata su un LP Electron, di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi e Bruno Maderna e affidò al suo caro amico, Giovanni Carandente, la costruzione di una sequenza scenica, che culminava in una complessa simmetria di immagini e suoni. Fu “il pubblico ostile e sbalordito, ma al tempo stesso affascinato– scrisse Carandente su quella prima – La performance è difficile da definire in termini teatrali. Non è un balletto, come Calder spesso lo chiamava, anche se è accompagnata da eccellente musica contemporanea; non è un’opera perché non vi è canto né recitativo, e l’esecuzione non è condizionata dalla partitura. Il palcoscenico dipinto e tridimensionale non è né uno scenario ma nemmeno un luogo dove l’azione semplicemente accade: esso è l’azione, sebbene di una specie astratta… Work in Progress è un capolavoro che acquista vita nell’atmosfera effimera del teatro”. Per quel che riguarda l’autore, Calder disse a Carandente dopo la prova generale: “Avrei potuto chiamarlo: ‘La mia vita in diciannove minuti’”.
Circa due anni fa, in occasione della presenza romana di William Kentridge, regista dell’applaudita Lulu di Alban Berg del maggio ’17, al grande e poliedrico artista sudafricano il Teatro ha chiesto di allestire una “seconda parte” di quella serata, un’“opera d’arte” con piena libertà d’ideazione e di scelta. Sarà dunque, questo del settembre 2019, di nuovo un evento-spettacolo, intitolato Waiting for the Sibyl, a distanza di poco più che cinquant’anni dal debutto di Calder nel fatidico 1968.
“Ho pensato che la carta, i frammenti di carta con cui mi esprimo da sempre, fossero l’elemento giusto per aprire il dialogo con Calder” ha dichiarato Kentridge. Nella sua mente le pagine in movimento hanno evocato immediatamente l’immagine della Sibilla Cumana, la sacerdotessa che trascriveva i suoi vaticini sulle foglie di quercia. Il volo delle foglie, con impresse le predizioni scompaginate dal vento, nell’idea di Kentridge diventa simile al roteare delle sculture di Calder. In scena sarà anche rappresentata la Sibilla del Paradiso di Dante, con il volume che raccoglieva tutte le pagine della conoscenza e della sapienza del mondo. “Ma quel libro, oggi, si disintegra, non c’è più”. Sul palcoscenico campeggerà un grande testo, costruito con collage, proiezioni, dipinti. Vedremo sulla scena nove artisti, tra danzatori e cantanti, per realizzare un intenso e poetico lavoro di trentacinque minuti, accompagnato dalla musica registrata di uno dei maggiori pianisti sudafricani, il compositore Kyle Shepherd con gli arrangiamenti vocali di Nhlanhla Mahlangu. Suddivisa in otto brevi scene, interrotte da cadute di sipario, sarà una creazione priva di parole. L’argomento sarà rivelato attraverso sentenze, frasi, enigmi, proiettati sia sullo schermo sia come ombre.