Spogliarsi un giorno a Roma

di Alberto Piccinini

Il seguente articolo è un estratto da Calibano #3 – Salome/Proibito 

Quasi in ognuno dei generi del cinema popolare italiano tra gli anni ’50 e ’60 c’è posto per una grande scena di ballo, una parentesi aperta nel cuore della narrazione. Nei saloon degli western spaghetti le ballerine scoprono le gambe al ritmo del can can e del ragtime. Nei gialli di ambientazione metropolitana si replica il ballo di Barbara Bouchet in minigonna, ripresa dal basso nella discoteca di Milano calibro 9, regia di Fernando Di Leo con le musiche di Luis Bacalov e degli Osanna. Negli spy movie si incontrano le ballerine del ventre esibirsi nei night del Cairo o di Beirut, opportunamente ricostruiti in studio. In nessuno dei grandi peplum di argomento biblico, infine, manca una qualche specie di danza dei veli, costosa esibizione di costumi, scene, coreografia al servizio della star femminile del film. Centomila dollari per la “scena dell’orgia” dove la regina di Saba Gina Lollobrigida seduce il re Salomone Yul Brynner, in Solomon and Sheba di King Vidor (1959), musiche orientaliste di Mario Nascimbene. Più intima nella messainscena, di straordinaria sensualità di fronte a un pubblico di soli maschi, la danza di Teodora di Bisanzio (l’attrice Gianna Maria Canale) per l’imperatore Giustiniano in Teodora di Riccardo Freda (1954), musica di Renzo Rossellini. A Hollywood l’anno prima Rita Hayworth era stata Salomè in una versione rivisitata del dramma biblico diretta da William Dieterle, con aggiunto il lieto fine della conversione al cristianesimo. La danza dei veli sulle musiche di George Duning – disse l’attrice – era stata “una delle pose più faticose e difficili di tutta la sua carriera”.

Le scene di danza erano un film nel film. Le musiche proseguivano una tradizione iniziata nella seconda metà dell’Ottocento con il Grand Opéra francese, affamato di storie esotiche secondo il gusto dell’epoca: il “Bacchanale” di Camille Saint-Saëns per il Samson et Dalilah, le danze persiane per la Lakmé di Léo Delibes, la Carmen di Bizet avevano stabilito le convenzioni passate ai compositori per il cinema e da loro al pubblico, l’uso di strumenti come l’oboe, il flauto e l’arpa o il pizzicato dei violini, il ritmo ostinato delle percussioni, intervalli aumentati o diminuiti che ricordassero le scale orientali. Lungamente provate con coreografi, costumisti, scenografi le riprese di queste scene potevano durare intere settimane o addirittura mesi com’era avvenuto per il corteo col quale Cleopatra/Elizabeth Taylor entrava nella Roma di Giulio Cesare ricostruita a Cinecittà. La presenza di danze, rituali, “orge” di seduzione, era sempre al centro dei manifesti pubblicitari, nonostante la durata di quelle sequenze fosse breve rispetto al minutaggio del film. L’immagine della star femminile impegnata nella danza dei veli rappresentava tutta l’ambiguità nel rapporto del cinema storico-biblico popolare verso il suo pubblico. Tanto più in un’epoca di messa in discussione del senso del pudore.

Fu uno di questi manifesti che venne sequestrato e giudicato “contrario alla pubblica decenza” dal tribunale di Roma nel giugno del 1958. Il caso giudiziario aveva preso le mosse da un’accorata denuncia del papa Pio XII in un messaggio ai parroci e ai predicatori quaresimalisti: “Chi potrebbe dire quale rovina d’anime, specialmente giovanili, simili immagini provocano, quali impuri pensieri e sentimenti possono suscitare, quanto contribuiscono alla corruzione del popolo”, vi si leggeva. La città si era svegliata tappezzata di manifesti giganti del film Zarak Khan, epico angloindiano diretto da Terence Young con Anita Ekberg nei panni di una principessa ribelle. Nel film, l’attrice svedese interpretava una seducente danza dei veli secondo tutte le convenzioni del genere, sulla musica di William Alwyn. Il manifesto la mostrava allungata su un letto, coperta da un bikini blu.  Altro manifesto al quale faceva riferimento il messaggio del Papa era quello di Miss Spogliarello con Brigitte Bardot, una commedia brillante e scanzonata di Marc Allégret e Roger Vadim in cui la figlia di un generale di Vichy fuggita a vivere a Parigi si iscriveva spavaldamente a un concorso di spogliarello per risolvere i suoi problemi economici e lo vinceva. Il grande disegno sul manifesto italiano ritraeva l’attrice francese seminuda in silhouette, nascosta dietro una grande mano bianca. 

La voce del Papa contava ancora qualcosa: ottenuto il sequestro dei manifesti e la copertura di quelli già affissi, finirono sotto processo i rappresentanti delle rispettive società di distribuzione cinematografica. Il processo finì con una condanna degli imputati e un risarcimento, eppure la sentenza in nome della pubblica decenza e le pene pecuniarie furono talmente blande da rappresentare quasi il contrario. In generale, i giornali d’opinione come i tribunali trattarono le battaglie dei cattolici con condiscendenza, talvolta con ironia. 

Le gesta di uno di questi “moralisti”, l’avvocato Agostino Greggi, furono una delle ispirazioni per la commedia dallo stesso titolo scritta in tempo reale da Rodolfo Sonego e interpretata da Alberto Sordi alle prese con uno dei suoi personaggi di ipocriti beghini, perfidi e  untuosi. Nel film il moralista assiste a uno spogliarello dell’attrice austriaca Maria Perschy. Era nota l’attività di un certo Gino Gavuzzo del Segretariato Generale per la Moralità dell’Azione Cattolica il quale effettivamente frequentava i cinema e i locali notturni alla ricerca di trasgressioni e spettacoli osceni da perseguitare, e ne informava dettagliatamente per lettera il suo referente politico, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro. L’ex presidente della Repubblica sarebbe passato alla storia della Dolce Vita per lo schiaffo tirato a una signora con le spalle scoperte seduta in un ristorante. Nel 1962 le stesse agitazioni dei gruppi ultracattolici fornirono lo spunto per l’episodio “Le tentazioni del dottor Antonio” di Federico Fellini nel film Boccaccio ’70, che trasformava Anita Ekberg uscita da un grande manifesto in formato gigantessa nell’ossessione di un altro moralista, interpretato da Peppino De Filippo.

Europa di notte di Alessandro Blasetti, uscito nel febbraio 1959 – terzo incasso della stagione – fu il primo della serie dei mondo movie.  Usando la formula del viaggio nelle capitali dello spettacolo europeo il film mostrava clown e prestigiatori, cantanti e ballerine, ma soprattutto strip-tease:  si rivolgeva a un pubblico maschile adulto che la neonata televisione, destinata alle famiglie e controllata in gran parte da quei moralisti già sconfitti in tribunale, non poteva soddisfare fino in fondo. Concepito dal regista come un prodotto per “l’intellettuale e l’operaio, lo snob e il contadino” fu vietato ai minori di anni 18. Blasetti mostrava nelle sequenze finali gli spogliarelli dei locali parigini Crazy Horse e Le Carousel alternando con malizia controcampi o vere e proprie controscene del pubblico per raccontare, senza incorrere nei tagli della censura, l’esibizione della star Lily Niagara e della trans Coccinelle, “il personaggio al quale la Ville Lumière non ha ancora saputo attribuire con sicurezza uno dei vari sessi correnti”. 

Il commento di una voce fuoricampo cinica e smaliziata – il presentatore Corrado Mantoni su testo di Gualtiero Jacopetti – ricuciva il montaggio. Ammiratore di Indro Montanelli, giornalista e documentarista, di destra, Jacopetti era apertamente razzista come si vedrà nella serie dei suoi documentari Mondo cane. La sua voce indica una via differente rispetto alla proibizione cattolica, riportando al centro della scena lo sguardo maschile bianco borghese animato da una virilità posticcia e fascista. Per almeno un decennio sua fu la voce dell’ordine nella serie dei cosiddetti mondo movie, e nello stile col quale i rotocalchi svelavano i primi grandi servizi di nudo. Il successo di Europa di notte chiudeva definitivamente la crisi aperta dallo spogliarello di Aichè Nana al ristorante Rugantino, uno degli episodi centrali della dolce vita romana. L’attrice e ballerina turca era stata fotografata da un paparazzo durante la sua improvvisata danza senza veli, la notte del novembre 1958. Per la rottura di un tabù, dello sguardo e del segreto, fu condannata in appello a due mesi con la condizionale nel 1962. La sua carriera non decollò mai veramente. 

Nel 1976 lo spogliarello integrale della pornostar Cicciolina in un locale pubblico riaprì la questione dello sguardo: un’altra danza dei veli nell’Italia che era già contemporaneamente del femminismo, del Fuori e del “proletariato giovanile” ai concerti del  Parco Lambro, “nudo sì/ ma contro la dc”.

Alberto Piccinini è giornalista e autore radiotelevisivo. Scrive di musica e comunicazione per «Il manifesto», il «Venerdì», «Rolling Stone», «Linus». Fa parte del gruppo di blob,  ha realizzato programmi per Mtv e Raidue. È tra i conduttori di Radio3 Rai. Vive a Roma.

Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. In questo terzo numero, la rivista riflette sul tema del proibito a partire dalla figura di Salome, protagonista dell’omonima opera di Richard Strauss. 

Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma. 

Le illustrazioni interne di questo numero sono di Emilia Trevisani.