Pelle bianca, maschere nere: Aida e il blackface

di Neelam Srivastava

Il saggio è pubblicato integralmente e tratto da Calibano #0 – Aida/Blackface

Che cos’è il ‘blackface’? Termine pressoché sconosciuto in Italia fino a tempi recenti, è legato ai minstrel show, una tradizione del teatro itinerante americano molto in voga nel Diciannovesimo secolo e anche per buona parte del Ventesimo secolo, in cui attori bianchi recitavano la parte di personaggi Neri (afroamericani), con tratti etnici esagerati, caricaturali, ostensibilmente mirati a ‘informare’ il pubblico bianco degli usi e costumi dei Neri americani, ma che in realtà proiettavano grotteschi stereotipi razziali. I minstrel show, in verità, furono uno dei principali veicoli di disseminazione di conoscenza del mondo nero fra la popolazione americana bianca. Si potrebbe dire, anzi, che gli stereotipi generati dai minstrel show agirono da elemento strutturante dell’immaginario razzista americano, con profonde radici nell’istituzione della schiavitù. Tant’è che negli Stati Uniti, il blackface, ossia l’uso di trucco nero da parte di attori bianchi, è considerata una pratica razzista ed è spesso condannata e bandita da tutte le rappresentazioni teatrali e cinematografiche.

Il mondo dell’Opera si è posto piuttosto tardi il problema dell’uso del blackface, citando fedeltà filologica ad allestimenti d’epoca e alle disposizioni sceniche originali. Ma nel 2015, la Metropolitan Opera House di New York prende la decisione storica di smettere di truccare di nero il volto del cantante che impersona Otello nell’opera omonima di Verdi, e Aleksandr Antonenko diventa così un Otello bianco. Da allora in poi il Met proibisce l’uso del trucco nero per la pelle nelle sue produzioni. Sul suo sito, chi accede in streaming ai video degli spettacoli storici, trova un Content Advisory, ossia un avviso sul contenuto delle opere:

Alcuni spettacoli disponibili nel catalogo del Met Opera on Demand contengono rappresentazioni e stereotipi razziali e culturali offensivi. Le questioni sono varie: a cominciare da pratiche sceniche in disuso, come il trucco ‘blackface’, ‘brownface’ e ‘yellowface’ per arrivare a rappresentazioni razziste all’interno dei testi delle opere stesse. Continuiamo però a rendere disponibili questi spettacoli perché crediamo che costituiscano una parte importante del retaggio storico della compagnia. Il Met si impegna ad affrontare queste questioni vitali nella nostra programmazione, sia d’archivio che futura.

A partire dal 2015 la controversia diventa molto accesa. Moltissimi spettatori, critici e cantanti biasimano le scelte del Met, accusandole di un eccesso di ‘political correctness’ e di tradimento della visione artistica originaria di compositori e librettisti. Per di più si afferma che con un Otello bianco le tensioni razziali al centro dell’opera vengano meno. Nell’Aida l’uso del blackface è esplicitamente menzionato nella “Disposizione Scenica per l’Opera Aida, compilata e regolata secondo la messa in scena del Teatro alla Scala”, ossia le note per l’allestimento pubblicate da Giulio Ricordi nel 1873, due anni dopo la prima dell’opera al Cairo. Nella lista dei personaggi leggiamo che Amneris, la principessa egizia che rivaleggia con Aida per gli affetti del guerriero Radamès, dall’indole impetuosa e impressionabile, non è caratterizzata da uno specifico colore della pelle. Aida invece è descritta così:

Aida – schiava etiope, pelle olivastra rossiccio-scuro – 20 anni; amore, sommissione, dolcezza sono qualità principali di questo personaggio

Anche Amonasro, suo padre, è descritto in maniera simile:

Amonasro, re d’Etiopia e padre di Aida: pelle olivastra rossiccio-scuro – 40 anni; guerriero indomabile, pieno d’amor patrio; carattere impetuoso, violento

Le disposizioni sceniche dell’editore dell’opera sono chiarissime: sia Aida sia suo padre devono essere rappresentati con la pelle scura, anche se, come vedremo, la precisazione sul colore della pelle, che dev’essere “olivastra rossiccio-scuro”, ha determinati antecedenti nell’idea che gli antropologi italiani avevano della ‘razza etiopica’ nell’Ottocento.

L’Opera in Italia è tradizione, un importantissimo prodotto culturale di esportazione. Il dibattito sul blackface viene visto come un problema ‘americano’; alcuni commentatori lo vedono come un discorso ‘tossico’ importato dagli Stati Uniti che non ha rilevanza nel paese. Insomma, c’è chi crede che proibire il trucco nero sia più accettabile per la Metropolitan Opera rispetto a un teatro italiano, perché l’America ha un ‘problema razziale’ mentre l’Italia no (o così pare) e può quindi continuare a essere virtuosamente ‘fedele’ al testo di Verdi.

Ma Aida è un’opera per molti versi africana, fin dalle origini; e dev’essere vista nel contesto dell’imperialismo europeo (incluso quello italiano) in Africa. Si riconnette anche al nazionalismo di memoria risorgimentale.

Il critico postcoloniale Edward Said ha dedicato attenzione all’opera ‘egiziana’ di Verdi nella sua dimensione africana e imperiale. Quel Said che riformulò il significato del termine ‘orientalismo’ ponendolo come chiave di lettura dei testi del canone occidentale, sostenendo che romanzi come Cuore di tenebra di Joseph Conrad o Kim di Rudyard Kipling ‘inventano’ un Oriente e un’Africa immaginari fatti a uso e consumo del lettore e spettatore europeo, si occupò di musica nell’ultima parte della sua vita. E scrisse anche dell’Aida nel suo ormai classico libro Cultura e imperialismo, in cui esplora il contesto politico-storico in cui Verdi venne a comporre l’opera.

Aida fu commissionata dal Khedive Ismail d’Egitto per l’inaugurazione del Teatro dell’Opera del Cairo, che offrì a Verdi 150mila franchi d’oro come compenso per il lavoro. Said considera l’opera una versione europea e orientaleggiante dell’antico Egitto, che per Verdi agisce da mero sfondo esotizzante della storia. L’amico di Verdi Camille du Locle, che era appena tornato da un voyage en Orient, gli fa pervenire un soggetto operistico elaborato dal rinomato egittologo francese Auguste Mariette, con scenografie basate in gran parte sui lavori degli archeologi francesi che parteciparono come studiosi alla conquista napoleonica dell’Egitto. I volumi di archeologia della Description de l’Egypte di Napoleone strutturano questa visione arcaicizzante e atemporale di un Egitto antico, ‘liberato’ e ‘purificato’ della presenza scomoda degli ottomani e degli arabi. Mariette non solo pose la traccia del libretto, poi sviluppato da Antonio Ghislanzoni, ma ideò anche i costumi e le scenografie dell’opera. Verdi poi fece fabbricare le trombe per la marcia trionfale seguendo le ricostruzioni archeologiche degli antichi strumenti egiziani.

La tesi di Said è che quest’opera di Verdi, voluta dal viceré d’Egitto, venne prodotta per una classe economica e sociale in ascesa, sia egiziana sia europea (il Cairo all’epoca aveva buona parte di popolazione europea) che aspirava alla modernità ma che comunque rimaneva in una condizione di sudditanza al limite del vassallaggio rispetto alle potenze coloniali britanniche e francesi.

La trama dell’Aida, che non si risolve a favore del faraone, metteva in guardia l’Egitto contro pretese territoriali nel corno d’Africa (come l’Etiopia) su cui Italia, Francia e Inghilterra avevano mire espansionistiche. In tal modo la messa in scena di Aida diventa “un teatro del potere e della conoscenza” europei, mentre il vero scenario dell’Egitto del Diciannovesimo secolo è semplicemente scomparso.

La visione di Verdi di un’opera d’arte con un valore totalmente autonomo viene perciò messa in discussione da Said, che la contestualizza e la incentra sulle circostanze storiche. Un’opera considerata la quintessenza della grande tradizione lirica dell’Ottocento europeo fu in realtà prodotta per un teatro che non era né a Milano, né a Parigi, né a Vienna, ma al Cairo, crocevia di fedi, di imperi, di civiltà egiziane, ottomane, arabe, musulmane, ed europee. Questi effetti si fanno sentire nell’opera, nonostante Aida cerchi di evocare un Egitto atemporale e antico che gli europei amavano ricordare come ‘vero’ e autentico. Invece il Cairo (come tutto il resto del paese) era in rapida trasformazione, le pretese imperialiste degli inglesi si mescolavano con le aspirazioni espansionistiche del Khedive e l’emergere di una classe di commercianti che aveva forti legami sia con l’Europa sia con il mondo arabo. Secondo Said, “l’identità egiziana dell’Aida faceva parte della facciata europea del Cairo” ed è fondata su “un’estetica della separazione” fra città europea e araba, sul cui confine era stato costruito il Teatro dell’Opera. Said definisce l’opera “un article de luxe imperiale acquistato a credito per una minuscola clientela i cui divertimenti erano tangenziali ai loro veri scopi”, cioè l’arricchimento dei propri averi tramite commerci con gli occidentali. “Era”, conclude Said, “uno spettacolo imperiale fatto apposta per alienare e fare colpo su un pubblico esclusivamente europeo”.

Allo stesso tempo, però, è noto che per Verdi la vera prima di Aida fu alla Scala e non al Cairo, anzi lui non mise mai piede al Cairo. Per un italiano che vedeva Aida per la prima volta nel 1872 a Milano, l’opera rievocava i sentimenti patriottici del Risorgimento nella stessa misura in cui avrebbe potuto evocare una visione orientalista degli egiziani o dell’Africa.

Andando oltre la visione di Said, alcuni storici ricordano che nel 1861 il Khedive Ismail guidò una spedizione di 14mila uomini per sopprimere una rivolta di schiavi nel Sudan. I conflitti provocati dall’Egitto contro i territori dell’Africa ‘nera’, o meglio subsahariana, potrebbero aver contribuito alla decisione di creare un’opera sulla conquista dell’Etiopia da parte degli antichi egiziani. L’opera viene prodotta proprio durante l’ascesa nazionalista dell’Egitto improntata su un imperialismo intra-Africano. Anche in Egitto esistevano stereotipi razziali nei confronti degli africani di pelle nera e la costruzione dell’identità nazionale egiziana si basava in parte sulla percezione di questa differenza razziale.

Tornando alle note per la disposizione scenica di Aida, i personaggi di Aida e Amonasro dovevano avere la pelle più scura degli egiziani, diventando “ciò che l’Egitto non è”. Per cui, superando anche l’interpretazione di Said, non è l’Egitto che è orientalizzato dalla musica esotizzante di Verdi, ma sono le vittime imperiali dell’Egitto, ossia i mori e gli etiopi, e soprattutto le donne, a esserlo; è un’opera doppiamente orientalista: sia nei confronti degli egiziani sia degli africani Neri. È opportuno ricordare qui la riflessione di Frantz Fanon, che osserva che il soggetto Nero ‘diventa’ Nero tramite l’operazione visiva dello sguardo bianco, ossia acquisisce un’identità razziale attraverso l’Altro (non a caso il titolo del primo libro di Fanon era Il negro e l’altro, adesso tradotto in maniera più fedele al testo originario con il titolo Pelle nera, maschere bianche). Anche oggi Aida appare Nera grazie allo sguardo razzializzante e all’approccio ‘filologico’ di chi continua a riprodurre le stesse dinamiche razziali che attraversavano l’opera nel 1871, senza capire che queste dinamiche si sono evolute e occorre affrontare con una maggiore sensibilità, appunto storica, la rappresentazione delle diverse nazionalità etiopiche ed egiziane nell’opera. Se Aida è intesa come un’opera universale, in cui lo spettatore contemporaneo può vedere legami con le strutture sociali e i personaggi del proprio tempo e luogo, allora bisogna leggerla in maniera flessibile, come testo che prende sul serio sia la posizione del pubblico ma anche il rapporto che il pubblico inevitabilmente instaura fra lo svolgimento drammatico e il proprio ambiente.

C’è infine un altro aspetto sulla questione delle disposizioni sceniche originarie pubblicate da Ricordi che, come si è visto, richiedono che la pelle di Aida e Amonasro sia di colore “olivastro rossiccio-scuro”. Non è in realtà pelle nera ma un preciso richiamo alle teorie antropologiche italiane sulla cosiddetta ‘razza etiope’. Nell’Ottocento, come ricorda lo storico David Forgacs, gli etiopi non venivano considerati Neri ma discendenti da razza semitica o bianca; o, nelle parole dell’antropologo Aldobrandino Mochi in una lezione data a Firenze nel 1902, “un’estesa gamma etnica che va dal bassissimo tipo negro all’altro tipo semitico”. Gli etiopi erano rappresentati con la pelle “rossiccia” perché secondo la teoria antropologica dell’epoca si consideravano essi stessi una razza a parte, come affermava l’antropologo Alberto Pollera ancora nel 1922:

Come è ben noto l’abissino sa di non essere di origine nera, tanto che non ammette su questo punto alcuna discussione: chi dicesse ad un abissino che egli è nero, commetterebbe verso di lui sanguinosa ingiuria. Nemmeno vogliono confessare la loro derivazione dall’incrocio fra semiti e neri, e si attribuiscono il color rosso della carnagione per distinguersi dai bianchi, dai neri, e dalle altre razze

Questa percezione sarebbe presto cambiata. La prima di Aida ebbe luogo al Cairo il 24 dicembre 1871; nel febbraio di quell’anno, Roma era diventata la capitale d’Italia. Pochi anni dopo cominciarono le prime esplorazioni commerciali e geografiche nel corno d’Africa e la prima colonia italiana, l’Eritrea, viene fondata nel 1890, seguita dalla Somalia. L’atteggiamento italiano verso l’Africa oscillava fra l’immaginazione orientalista e le nascenti pretese di conquista; la rappresentazione delle popolazioni africane cominciava a subire quel lento processo di ‘annerimento’ della pelle che avrebbe portato alla razzializzazione degli etiopi come un popolo inferiore da dominare e subordinare. La razzializzazione degli etiopi sarebbe servita da giustificazione ideologica per la conquista dell’Etiopia nel 1935, mentre fino a poco tempo prima il popolo etiope era considerato di discendenza semitica o addirittura bianca.

Ecco perché la questione del blackface nell’Aida ha radici nel rapporto coloniale e razziale degli europei con il mondo africano e arabo; è una scelta intrisa di storia, e non una semplice fedeltà alla visione di Verdi.

Neelam Srivastava è professoressa di Letteratura postcoloniale e comparata all’Università di Newcastle, in Inghilterra. Si occupa di storia culturale del colonialismo italiano, letteratura postcoloniale indiana e pensiero anticoloniale. Ha pubblicato come autrice Secularism and the Postcolonial Indian Novel: National and Cosmopolitan Narratives (London: Routledge, 2008) e, in co-curatela, The Bloomsbury Handbook of Postcolonial Print Cultures (Bloomsbury, 2023) e The Form ofIdeology and the Ideology of Form: Cold War, Decolonization, and Postcolonial Print Cultures(Open Book Publishers, 2022).

Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. 

Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma.

*L’immagine di copertina è stata creata con tecnologia Text To Image da Simone Ferrini – Ortica video e grafica