di Giuliano Danieli
Il seguente saggio è pubblicato integralmente e tratto dalla rubrica Se non ti basta all’interno di Calibano #0 – Aida/Blackface
Sull’intreccio fra manifestazioni musicali e discorsi o pratiche legati all’idea di razza sono stati prodotti, negli ultimi decenni, numerosi studi, soprattutto in ambito accademico anglo-americano. Fondamentale il volume collettaneo curato dagli etnomusicologi Ronald Radano e Philip V. Bohlman, Music and the Racial Imagination (Chicago: University of Chicago Press, 2000), che affronta il tema attraverso un ampio ventaglio di case studies e sotto molteplici prospettive (ad esempio: l’intersezione fra razza, corpo e danza; fra nazionalismo, identità etnica e ibridismo; la presenza di inflessioni razziali nella storiografia musicale e nella rappresentazione dell’Altro in musica). Se però si guarda alle ricerche sull’opera, è impossibile non notare una contraddizione: a livello scientifico si fatica ancora a riconoscere l’urgenza di discutere il problema razziale, laddove invece questioni legate a opera e razza permeano il repertorio e la pratica quotidiana del nostro fare teatro musicale oggi, come emerge da alcuni contributi di questo numero di Calibano. Si tratta di una contraddizione tanto più sorprendente se si considera la quantità di titoli operistici, anche molto celebri, in cui la rappresentazione (spessissimo stereotipata e svilente) di personaggi di carnagione non bianca (non necessariamente Neri, quindi) risulta centrale: si va dagli Otello di Gioachino Rossini (1816) e Giuseppe Verdi (1887) ad Aida (1871), da Il flauto magico di Wolfgang Amadeus Mozart (1791) a L’Africaine di Giacomo Meyerbeer (1865), da Les pêcheurs de perles di Georges Bizet (1863) a The Mikado di Arthur Sullivan (1885), fino chiaramente a molte opere del Novecento e della contemporaneità.
A colmare il ritardo della musicologia su questo fronte sono giunti recentemente due corposi volumi. Blackness in Opera, curato da Naomi André, Karen M. Bryan ed Eric Saylor (Urbana: University of Illinois, 2012), raccoglie saggi che non solo analizzano i modi in cui compositori, librettisti e interpreti di epoche diverse hanno rappresentato personaggi di pelle nera, ma discutono anche i modi in cui oggi certe opere e certe convenzioni produttive del passato vengono percepite, investite di nuovi significati e sensibilità, a volte criticate e quindi trasformate. Il pregio di questo volume sta nel porci di fronte ad un’inusuale numerosità di oggetti: un capitolo è dedicato a The Masque of Blackness, un masque inglese (quindi non un’opera, ma comunque un genere di teatro comprendente canto e danza) del 1605, in cui recitarono anche la regina Anna e le sue dame di corte, tinte di nero, a riprodurre un gruppo di creature primordiali “sbiancate” dalla luce civilizzatrice di Albione – metafora del potere della monarchia inglese, dai risvolti chiaramente razzisti. Altri contributi riguardano opere più note, come Aida, di cui viene offerta una lettura (evocata in questo volume da Neelam Srivastava) che complica la dicotomia Est/Ovest di Edward Said, e racconta delle intersezioni fra le politiche espansionistiche dell’Egitto del secondo Ottocento e un orientalismo “di secondo livello”, interno al continente africano (Egitto vs Africa Nera). Una serie di saggi, infine, affronta titoli che esulano dal repertorio abituale: Koanga di Frederick Delius (1904), opera ambientata nelle piantagioni della Louisiana e disseminata di reminiscenze di canti folk afro-americani, pur tuttavia inseriti in un quadro drammaturgico e musicale per il resto totalmente estraneo, se non contrapposto, alla cultura Nera; Jonny spielt auf di Ernst Krenek (1927), che ha per protagonista un violinista Nero di una jazz-band; e opere composte e interpretate da artisti non bianchi, come Treemonisha di Scott Joplin (1911), Ouanga! di Clarence Cameron White (1932) e Blue Steel di William Graham Still (1934).
Quasi una prosecuzione di questa iniziativa editoriale è la monografia Black Opera: History, Power, Engagement di Naomi André (Urbana: University of Illinois, 2018) che nel titolo riassume bene gli obiettivi della ricerca: fornire una storia dei legami fra opera e blackness, tracciando una storia parallela del teatro musicale (soprattutto in America e Sud Africa) che dia il giusto risalto al contributo di compositori, librettisti, cantanti e spettatori Neri; esplorare gli squilibri di potere storicamente radicati nel mondo dell’opera fra bianchi e Neri, ma anche verificare come la sempre maggiore presenza di artisti e pubblici di pelle scura all’opera abbia contribuito e stia contribuendo ad un’emancipazione e un “empowerment” crescenti dei non-bianchi, anche al di fuori del teatro musicale; proporre uno studio che parli del presente più che del passato (di qui la nozione di “engaged musicology”, traducibile come musicologia “impegnata”), esplorando i significati (soprattutto sul piano delle politiche e discorsi razziali) che oggi l’opera ha assunto per il pubblico contemporaneo. Alcuni dei casi di studio proposti da André completano e approfondiscono prospettive già elaborate in Blackness in Opera: ad esempio, il suo valido capitolo su Porgy and Bess di George Gershwin (1935), opera controversa sulla vita di una comunità afroamericana, che mostra legami con alcuni stereotipi derivanti dai minstrel show, ma al contempo risuona delle esperienze biografiche di Gershwin stesso, anch’esso vittima – in quanto figlio di immigrati ebrei – di discriminazione razziale. Di particolare interesse e originalità le pagine dedicate ai rifacimenti filmici di Carmen, su tutti Carmen Jones di Otto Preminger (1954) e U-Carmen di Mark Dornford-May (2005), che ricollocano l’opera di Bizet nel contesto, rispettivamente, della Carolina del Nord e Chicago, e di un sobborgo nero di Città del Capo. Se la lettura di Carmen Jones mette in luce problematiche politiche razziste alla base del film, quella di U-Carmen offre un esempio di come l’esotismo, il razzismo e il maschilismo di cui la Carmen di Bizet è informata possano essere decostruiti e cambiati di segno grazie al contributo di interpreti di colore e ad un’ambientazione che parla del recente dramma dell’Apartheid in Sud Africa.
Giuliano Danieli ha conseguito un dottorato in Musicologia presso il King’s College London, ed è attualmente assegnista di ricerca e docente presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dove si occupa di intersezioni fra opera e cinema. Lavora anche come social media manager e videomaker presso il Teatro dell’Opera di Roma.
Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli.
Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma
*L’immagine di copertina è stata creata con tecnologia Text To Image da Simone Ferrini – Ortica video e grafica