di Shelleen Greene
traduzione di Valentina Rapetti
La seguente rubrica è tratta integralmente da Calibano #5 – Simon Boccanegra/Il potere, in vendita sul sito del Teatro dell’Opera di Roma, di effequ e nelle librerie dal 27 novembre 2024
All’inizio degli anni Novanta, durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica, una delle immagini più iconiche delle migrazioni contemporanee s’impone all’attenzione pubblica: l’8 agosto 1991, la nave mercantile Vlora attracca al molo di levante di Bari con migliaia di cittadini albanesi a bordo. Nel 1994 l’immagine viene riprodotta in Lamerica di Gianni Amelio, film ambientato in Albania all’indomani della guerra fredda e basato sulla storia del colonialismo italiano in Albania (1939-1943) durante il fascismo. Sebbene il film riesca a tracciare con efficacia un parallelismo tra l’emigrazione italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento e la crisi dei migranti albanesi, Amelio propone una rappresentazione stereotipata dei cittadini dell’Europa orientale ritraendoli come soggetti ‘altri’, non occidentali, e dipingendo al tempo stesso gli italiani come vittime prima del divario economico tra nord e sud che nella fase postunitaria costrinse i meridionali a lasciare il paese in massa, e poi di un dittatore responsabile del regime fascista. Coerentemente con la tradizione neorealista, il film rappresenta gli italiani come “brava gente”, assolvendoli dalla colpa del fascismo.
Nel tempo, il cinema italiano sulle migrazioni ha incorporato elementi stilistici riconducibili a generi diversi, dal film noir al thriller psicologico, passando per il dramma e persino per la commedia. Tuttavia, negli ultimi tre decenni il documentario si è imposto come genere d’elezione per rappresentare l’esperienza dei migranti. Si pensi al successo internazionale di Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi, documentario sull’impatto della migrazione sulle vite degli abitanti di Lampedusa. Il film ha portato il cinema del reale a un nuovo livello, sovrapponendo la dimensione locale e globale del fenomeno migratorio sullo sfondo della “Fortezza Europa” e della necropolitica che disciplina la gestione delle frontiere europee. Al di fuori del circuito commerciale, alcuni cineasti hanno sperimentato strategie di contestazione e sovvertimento delle logiche (post)coloniali delle grandi produzioni. Il sociologo e regista Andrea Segre ha diretto Come un uomo sulla terra (2008), Mare chiuso (2012) e Ibi (2017), documentari realizzati secondo una modalità partecipativa con il collettivo ZaLab, che fornisce ai migranti formazione e attrezzature per produrre film e diventare “autori delle proprie storie”. Il regista e studioso Simone Brioni ha prodotto e co-costruito documentari come Aulò (2009), con la scrittrice e saggista italiana di origine eritrea Ribka Sibhatu, e Maka (2023), con l’antropologa italocamerunense Geneviève Makaping, applicando alla realizzazione di quest’ultimo film il metodo di ricerca antropologica descritto da Makaping in Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi? (2001), libro basato sulla sua esperienza di migrazione e su quattro decenni di vita in Italia.
Altri registi hanno adottato strategie cinematografiche sperimentali per raccontare l’eredità odierna dell’emigrazione di massa e del colonialismo italiano, riconducendo le due esperienze storiche all’epoca postunitaria, alle rotte del commercio marittimo nel periodo premoderno e, ancora più indietro nel tempo, alla presenza degli antichi romani in Africa. Si pensi a film come Dal polo all’equatore (Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, 1985), un’indagine sull’uso della macchina da presa nel progetto coloniale basata sugli archivi del cineasta e documentarista Luca Comerio (1878-1940), che contengono materiali filmati nel periodo tra le due guerre mondiali. O a Western Union: Small Boats (2007) di Sir Isaac Julien, una riflessione sugli odierni flussi migratori verso l’Italia che dialoga con Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, adattamento cinematografico dell’eponimo romanzo storico di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ambientato durante l’unificazione del Regno d’Italia e girato in Sicilia, uno dei principali punti d’ingresso in Europa per i migranti che attraversano il Mediterraneo.
Questo movimento cinematografico è animato anche da registi afroitaliani che dirigono documentari, film di narrazione e sperimentali sulle esperienze dei migranti e degli italiani neri, opere che sovvertono la prospettiva italiana egemone, spesso bianca e maschile, sulla migrazione. La regista e attivista Medhin Paolos ha co-diretto con Alan Maglio Asmarina: Voci e volti di una eredità postcoloniale (2015), sulla comunità eritrea ed etiope presente in Italia da oltre cinquant’anni, confutando le narrazioni dominanti sull’arrivo “recente” dei migranti africani nella penisola italiana. Asmarina rivela un archivio postcoloniale che documenta il colonialismo italiano in Eritrea ed Etiopia e la presenza storica di italiani di ascendenza africana in Italia. Il regista Dagmawi Yimer, che ha scritto e co-diretto con Andrea Segre Come un uomo sulla terra (2008) e co-fondato l’Archivio delle Memorie Migranti, ha firmato ASMAT-Names (2015), un film sperimentale che commemora le vittime del tragico naufragio del 3 ottobre 2013, in cui quasi quattrocento migranti persero la vita annegando al largo delle coste di Lampedusa, e Va’ pensiero – Storie ambulanti (2013), il racconto incrociato di due aggressioni razziste a Milano e Firenze e della complicata ricomposizione dei frammenti di vita dei sopravvissuti. Il regista ed educatore Fred Kudjo Kuwornu ha diretto 18 Ius soli (2011), sul diritto alla cittadinanza degli italiani di seconda generazione, persone nate o cresciute in Italia e costrette ad attendere il compimento del diciottesimo anno per chiedere di ottenere la cittadinanza italiana. Kuwornu ha diretto anche BlaxploItalian: 100 Years of Blackness in Italian Cinema (2016) e We Were Here – The Untold History of Black Africans in Renaissance Europe (2024). Lo scrittore, musicista e regista Antonio Dikele Distefano ha diretto Autumn Beat (2022), un film su due fratelli afrodiscendenti che vivono a Milano e inseguono il successo nell’industria musicale. La trama copre un arco temporale di tre decenni, inserendo l’esperienza dei neri italiani nella più ampia cornice storica dell’Italia del dopoguerra. Dikele Distefano ha firmato anche Zero (2021), la prima serie televisiva italiana con un cast prevalentemente nero, prodotta da Netflix e ispirata al suo romanzo per giovani adulti Non ho mai avuto la mia età.
Tra i numerosi articoli in rivista, volumi monografici e collettanei dedicati a questo genere cinematografico si segnalano From Terrone to Extracomunitario: New Manifestations of Racism in Italian Cinema (curato da Grace Russo Bullaro, Troubador, 2010), The Cinemas of Italian Migration: European and Transatlantic Narratives (curato da Sabine Schrader e Daniel Winkler, Cambridge Scholars Publishing, 2013), Marvelous Bodies: Italy’s New Migrant Cinema di Vetri Nathan (Purdue University Press, 2017) e Migrant Anxieties: Italian Cinema in a Transnational Context di Aine O’Healy (Indiana University Press, 2019). Questi studi si sono concentrati sul cinema italiano d’autore contemporaneo, analizzando film come Quando sei nato non puoi più nasconderti (Marco Tullio Giordana, 2005), La sconosciuta (Giuseppe Tornatore, 2006), Io, l’altro (Moshen Meliti, 2006), e Bianco e nero (Cristina Comencini, 2008).
Dell’ampio quadro del cinema italiano sulle migrazioni degli ultimi tre decenni, fa parte anche Io Capitano, diretto da Matteo Garrone nel 2023. Il film ha ottenuto il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed è stato scelto dal comitato di selezione istituito dall’ANICA per rappresentare l’Italia nella categoria miglior film internazionale agli Academy Awards. Inoltre, ha ricevuto una candidatura come miglior film internazionale ai Golden Globes 2024. In Italia, Io Capitano ha vinto sette David di Donatello, aggiudicandosi il premio nelle categorie miglior film e miglior regia. Io Capitano appare come un’aggiunta tardiva, priva delle sfumature, della capacità introspettiva e della complessità tematica e formale che caratterizza molti dei film riconducibili allo stesso genere, compresi i lavori precedenti di Garrone. Qual è, dunque, il valore aggiunto di Io Capitano nel contesto dell’attuale “crisi” migratoria italiana ed europea? Come molti dei film italiani sulla migrazione dall’Africa verso l’Europa, Io Capitano non fotografa, né affronta, la relazione tra i flussi migratori odierni e l’esperienza del colonialismo italiano di epoca liberale e fascista, soprattutto in Libia, un paese che l’Italia occupò militarmente durante la guerra italo-turca (1911-1912) dopo un tentativo fallimentare di conquista dell’Etiopia terminato con la sconfitta di Adua nel 1896, e che divenne ufficialmente parte dell’impero fascista in seguito alla guerra d’Etiopia (1935-1936) e alla proclamazione dell’Africa Orientale Italiana nel 1936. Gli attori principali di Io Capitano sono francesi e francofoni e il film è ambientato principalmente in Senegal, Tunisia e Marocco, ex colonie francesi. Ciò ha comportato l’esclusione degli italiani di ascendenza africana che da tempo lavorano nell’industria cinematografica e televisiva italiana, oltre a reiterare una prassi consolidata nel cinema italiano: deviare l’attenzione dall’espansionismo coloniale italiano a quello di altre potenze europee, come la Francia e la Gran Bretagna, per ignorare la diaspora nera in Italia. In Io Capitano, dunque, la migrazione africana resta ai margini della penisola.
Il film termina con il grido liberatorio “Italie! Italie!”, pronunciato in francese dai migranti giunti al largo delle coste italiane. L’Italia appare nella forma sfocata e lontana di un lembo di terra e di un elicottero solitario della Guardia Costiera che sorvola il peschereccio. Segue un ultimo primo piano del protagonista Seydou, il cui grido ripetuto “Sono io il capitano!” viene coperto dal rumore delle pale dell’elicottero prima che la scena sfumi nello sfondo dei titoli di coda. Come interpretare l’incapacità del film di rappresentare l’arrivo dei migranti africani sulle coste italiane? Secondo Garrone, questo è “già stato fatto” e, in effetti, non mancano film italiani che documentano e analizzano le migrazioni contemporanee. Il primo piano finale, insieme all’“Io” del titolo, pone l’accento sul singolo, su una volontà soggettiva e su un potere di autodeterminazione che appaiono fuori luogo e inverosimili considerate le numerose catastrofi che si sono verificate, e che continueranno a verificarsi, nel Mediterraneo.
Come sostiene la studiosa Gaia Giuliani, se da una parte il film “mescola sapientemente mito e realtà, sogni e incubi, ricordi e aspettative del giovane migrante senegalese”, dall’altra “non riesce a raccontare la bianchezza, né i suoi dispositivi di accumulo per estrazione […] come tecnologie che regolano il funzionamento del regime di frontiera”. Nell’economia del film, “il ‘soggetto bianco’ rappresenta l’aspettativa da soddisfare (l’elicottero che finalmente raggiunge il peschereccio), anziché il ‘deus ex-machina’ responsabile della violenza di confine”. In effetti, la causa di molte delle immagini strazianti e tuttavia poetiche del film, tra cui le torture, i cadaveri nel deserto, le imbarcazioni fatiscenti piene di migranti disperati, alla deriva, e lasciati morire in mare, è proprio la militarizzazione delle frontiere dell’Europa occidentale. In Io Capitano, un possibile finale alternativo in cui Seydou e gli altri migranti vengono riportati in Libia o lasciati annegare viene eluso attraverso una sospensione trionfale che esclude esiti altri dalla cornice narrativa del film. Come attestano altre produzioni riconducibili al cinema italiano sulla migrazione, tali esiti non sono sempre e necessariamente tragici, ma contribuiscono ad ampliare il racconto della ridefinizione continua dei confini dell’appartenenza nazionale.
Shelleen Greene è professoressa associata di Cinema e Media Studies presso la University of California, Los Angeles. I suoi ambiti di ricerca includono il cinema italiano, gli studi sulle identità nere in Europa e sul femminismo nell’era digitale. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Equivocal Subjects: Between Italy and Africa – Constructions of Racial and National Identity in the Italian Cinema (Continuum/ Bloomsbury, 2012), e suoi interventi compaiono anche in From Terrone to Extracomunitario: New Manifestations of Racism in Contemporary Italian Cinema: Shifting Demographics and Changing Images in a Multi-Cultural Globalized Society (Troubador Press, 2010) e nel Wiley-Blackwell Companion to Federico Fellini (2020).
Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. In questo quinto numero, la rivista riflette sulle forme del Potere nella società contemporanea.
Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma.
Le illustrazioni interne di questo numero, realizzate tramite software di intelligenza artificiale, sono di Katie Morris.