di Paolo Pecere
Il seguente saggio è pubblicato integralmente da Calibano #6 – Alcina/L’incantesimo del mondo
Un secolo fa, nei libri di antropologia, la magia compariva quasi sempre come una teoria e una pratica del passato, propria di civiltà remote e perfino ‘inferiori’. Questa prospettiva dipendeva da una visione evoluzionistica e imperialista dell’Ottocento, e prima ancora da una lunga e articolata polemica antimagica iniziata dal Cristianesimo, che ha ripudiato gli spiriti e gli dèi che popolavano il mondo pagano riducendoli a presenza diabolica, e ripresa con le nuove scienze dal Seicento in poi, quando la magia è presentata come un progetto infondato di padronanza della natura, che il nuovo metodo sperimentale permette di superare. Le cose, però, stavano cambiando, mentre l’ottimismo sull’ordine civile e progressivo della civiltà moderna era scosso dalle due Guerre. Ernesto de Martino progettò a lungo una ‘Storia della magia’ che non doveva essere più un semplice resoconto degli sforzi impotenti dell’infanzia dell’umanità, bensì la posizione di un problema: la civiltà europea “ha scelto la fedeltà alla ragione e alla storia” – scriveva introducendo l’antologia Magia e civiltà nel 1962 –, ma quella fedeltà è sempre precaria:
La verità è che per le tradizioni culturali non esistono casseforti blindate custodite in banche che non possono fallire: e per quanto concerne la tradizione occidentale sussiste sempre il pericolo che, in un modo o nell’altro, la sua polemica antimagica si attenui e vada perdendo memoria di sé.
Già nel suo capolavoro Il mondo magico (1948), de Martino chiariva che la razionalità scientifica occidentale è continuamente messa in gioco quando ci si confronta con altre civiltà, e attingeva a un ampio archivio etnografico per ritrovare nella magia un vero e proprio fondamento originario dell’attività culturale umana. Per de Martino la magia non era tanto una pseudoscienza, un insieme di pratiche e credenze inefficaci e illusorie; era prima di tutto una modalità di essere al mondo, capace di proteggere gli individui dal rischio di soccombere di fronte alla natura e rinunciare alla propria attività. Questa funzione di garanzia di credenze e pratiche magiche poteva tornare a farsi valere anche nel mondo secolarizzato, in momenti di crisi individuale e collettiva. “Nella nostra civiltà” scriveva, “vi sono situazioni marginali […] in cui tali forme possono ancora mantenersi ovvero riprodursi”. Ne erano esempio “le tradizioni magiche ancora vive presso le nostre popolazioni contadine” e “la magia dei circoli spiritistici”: diversi sintomi del fatto che “in una situazione di particolari sofferenze e privazioni, nel corso di una guerra, di una carestia ecc. l’esserci può non resistere alla tensione eccezionale, e può quindi di nuovo aprirsi al dramma esistenziale magico”. L’idea di un ‘dramma magico’ era ispirata dalle testimonianze sui riti delle cosiddette civiltà primitive, ma era appunto riproposta da scene molto più vicine: de Martino pensava anche ai nuovi miti e riti dei fascismi e del nazismo, dove gli individui si lasciavano assorbire in narrazioni sul destino del popolo che avevano portato a esiti distruttivi. Nel suo primo libro – era il 1941 – de Martino scrive: “La nostra civiltà è in crisi: un mondo accenna ad andare in pezzi, un altro si annunzia”, e mentre non si conosce l’esito di questo momento drammatico, “ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento, e assumere le proprie responsabilità”. Il nesso tra magia e nuovi miti degli Stati totalitari gli era stato suggerito anche dalla lettura del libro Il mito dello Stato del filosofo liberale Ernst Cassirer, ebreo fuggito dalla Germania nazista, che de Martino aveva proposto a Cesare Pavese di far tradurre in italiano, proponendo tra i possibili titoli della traduzione: Stregoni e duci. In un saggio degli anni Cinquanta, raccontando l’origine del suo interesse per la magia, scriveva parole nette e impressionanti:
Erano gli anni in cui Hitler sciamanizzava in Germania e in Europa, e ancora lontano era il giorno in cui le rovine del palazzo della Cancelleria avrebbero composto per questo atroce sciamano europeo la bara di fuoco in cui egli tentava di seppellire il genere umano.
L’indagine su magismo e sciamanismo non nasceva quindi tanto da una nostalgia per riti arcaici o da un interesse parapsicologico (che pure de Martino coltivò), quanto dall’esigenza di fare i conti con quelle energie inconsce rispetto a cui “l’esorcismo della ragione tradizionale non era riuscito appieno”, per conquistare, mediante la riflessione etnologica sulla magia, “una ragione più ampia ed efficace”. La magia è quindi ambivalente: garantisce un ordine mondano, protegge in momenti di fragilità, ma in quella faglia di vulnerabilità l’individuo può venire privato della propria autonomia, smarrirsi, svanire, votarsi a un destino catastrofico. Questo problema del magico, e l’annessa ricerca di una via intermedia tra gli eccessi di razionalismo e irrazionalismo, è vivo più che mai oggi, con l’acutizzarsi della crisi delle istituzioni democratiche e la messa in gioco dell’autorevole lezza della scienza. Ma proprio nell’attualità, quel percorso storico ed etnologico auspicato da de Martino porta a vedere sotto un’altra luce la visione magica del mondo.
Com’è fatto un mondo magico? Per capirlo, non è necessario andare a leggere vecchi racconti sulla società degli Inuit della Groenlandia o degli Araweté amazzonici. Si può aprire il De magia di un filosofo neoplatonico e mago del Rinascimento: Giordano Bruno. Il mondo è un tutto animato e vivente, continuamente attraversato da varie mescolanze e trasmissioni di effetti, evidenti e occulti, dal riscaldamento al desiderio e alla paura. In tutte le cose c’è un senso, che permette di riconoscere i pericoli. Tutto è significativo. Tutto è vicino, pertanto con le dovute procedure si possono vedere cose remote. La morte è scioglimento di legami temporanei, non è fine ma trasformazione.
In queste idee troviamo unite cose che la filosofia ha poi scisso: processi fisici e mentali, interiorità e esteriorità, conoscenza ed emozioni. Il mondo magico è stato gradualmente allontanato. I maghi rinascimentali erano già consapevoli che il tentativo di dominare la natura, che fin dall’antichità aveva caratterizzato la loro arte, si stava sviluppando con nuovi metodi. Tommaso Campanella, che nel Senso delle cose e della magia descrive un mondo-animale simile a quello di Bruno, esprime con chiarezza questo passaggio. Tutto ciò che fanno gli scienziati appare “opera magica: finché non s’intende l’arte, sempre dicesi magia; dopo è volgare scienza”. Così “l’invenzione della polvere dell’archibugio e delle stampe fu cosa magica, e così la calamita; ma oggi che tutti sanno l’arte è volgare scienza”, cioè una conoscenza accessibile a tutti che ha perso la sua aura. Francis Bacon, teorizzando il metodo sperimentale, pensava ancora di proseguire gli sforzi dell’arte magica, con cui la mente cerca di conoscere e controllare una materia animata. La novità stava però nel passare da una conoscenza segreta ed esclusiva, espressa in una lingua esoterica, a una conoscenza condivisa, chiara, sottoposta a prove. Nella società industriale, per un eccesso di fiducia nella pura razionalità, la scienza è stata ritenuta capace di spiegare ogni fenomeno, dal cielo alla psiche, e la visione magica è apparsa ingenua e ingannevole. Theodor Adorno, quando all’inizio degli anni Cinquanta lesse la rubrica astrologica del «Los Angeles Times» sostenne che la credenza nell’oroscopo era un prodotto dell’industria culturale che riduceva l’autonomia delle persone, favorendone la sudditanza psicologica e il conformismo, l’accettazione dell’esistente. Di nuovo, emergeva in queste considerazioni il lato oppressivo del magico, che si è continuato a diffondere in forme apparentemente innocue a partire dalla cultura americana, ma di nuovo questa interpretazione negava il suo lato potenzialmente liberatorio. Sappiamo d’altra parte che astrologia e mentalità scientifica hanno sempre convissuto pacificamente, da Galilei – grande appassionato di oroscopi – a oggi. Se la magia nelle società industriali e ipertecnologiche continua ad avere un crescente numero di seguaci e simpatizzanti è, per un verso, a causa dell’indebolimento di pensiero critico e fiducia nella trasformazione democratica del mondo, ma è anche per un bisogno di reincantamento di quello stesso mondo che opprime, con i suoi stili di vita meccanizzati e il suo isolamento dall’ambiente naturale. Questo tipo di ipotesi è difficile da sostenere, poiché, come osservava già lo storico della scienza e della magia Paolo Rossi, “chi coltiva interessi per il mondo magico di venta, sempre e inevitabilmente, bersaglio da un lato degli scientisti che rifiutano con orrore l’immagine di origini impure delle loro discipline, dall’altro degli assertori di una visione magica del mondo”. Una via per riconsiderare l’attualità del magico è offerta oggi, come aveva intuito de Martino, proprio dall’etnologia.
L’antropologo Marshall Sahlins ha osservato che in gran parte delle società umane, dalle Americhe all’Oceania, la magia esiste non già come tecnica per controllare più o meno efficacemente i fenomeni, ma come una dimensione che accompagna ogni evento. Come scrive Sahlins, “in un universo incantato, la distinzione tra naturale e soprannaturale”, tipica della nostra idea di una realtà ‘trascendente’, “è priva di significato”: tutto è spirituale e materiale allo stesso tempo, non esiste un ‘altro mondo’ occulto. Perciò non si tratta di rivolgersi agli spiriti per ottenere eccezionali benefici che rompano l’ordine comune delle cose; piuttosto, ogni cosa, dalla pioggia al lavoro umano, è inseparabile dal suo significato spirituale. Tutto ciò che accade dipende da entità non umane, ma proprio per questo un tale ordine cosmico somiglia a quello che per noi è un ordine naturale: riconoscere quest’ordine superiore non toglie che le persone si impegnino e controllino le proprie esistenze. Questo non vuole dire che per ‘reincantare’ il mondo si possa tornare senz’altro alla visione del mondo degli aborigeni australiani, dimenticando quella che abbiamo appreso nascendo in società plasmate dalla scienza. La magia non servirà più per noi ad agire nel mondo, come quando si fa il malocchio o si lancia un incantesimo per ottenere un beneficio economico, né patiremo da essa effetti deleteri, come ancora accade in diverse società contemporanee, dove ancora esistono processi di stregoneria. Non dobbiamo immaginare autori e colpevoli occulti dei fatti naturali, come quei cittadini della Florida che in occasione dei recenti uragani nel Golfo del Messico si sono messi a sparare contro la tempesta, o a ipotizzare che questa fosse diretta dai democratici: il magico confina qui col complottismo e con la paranoia. C’è invece un altro senso in cui la relazione magica col mondo può essere rivalutata, o meglio riscoperta: è la via indicata dall’animismo, cioè la personificazione di animali, piante, pietre, venti, fuoco, e così via. Se nell’Ottocento questa nozione serviva a rimarcare una superiorità dell’Occidente rispetto ai primitivi, di recente in etnologia la si usa, al contrario, per sottolineare una visione del mondo equivalente e irriducibile al nostro naturalismo, e per alcuni una preziosa risorsa di senso. Ma questa dicotomia tra animismo e naturalismo è ormai troppo rigida. Dopo secoli di incontri e scontri etnici globali, non esistono praticamente più civiltà puramente animiste e civiltà puramente naturaliste (ammesso che in passato le cose stessero così). Il capo di una comunità indigena amazzonica riverisce gli spiriti della foresta, ma nello stesso tempo studia antropologia all’università, usa volentieri pannelli solari e computer, usa il diritto per fare causa alle compagnie petrolifere che avvelenano i fiumi, riconosce il valore dell’ecologia per un dialogo con i Bianchi. D’altra parte, una laureata europea può credere nell’anima, nella reincarnazione, nei segni premonitori, e sappiamo bene che la nostra società ha un rapporto tutt’altro che pacificato con la scienza. Come spiegare questi fatti? Dev’esserci un terreno comune, un livello dell’esperienza che condividiamo prima che i codici culturali e le abitudini ci separino.
Per individuare questo terreno comune consideriamo l’intensità di alcune esperienze, come l’impatto del vento nevoso che ci avvolge, il profumo di un frutto che c’inebria, l’incontro con un animale che ci spaventa, l’arrivo in un luogo conosciuto che ci riporta indietro nel tempo e ci commuove. In esperienze come queste, che in una società animista si descriverebbero come incontri con persone non umane, il rapporto con un altro agisce su di noi emozionandoci, riempie la nostra mente, mette in gioco la nostra vita e la nostra morte. In questo senso, siamo tutti animisti. Non si tratta soltanto di teorie. Da qualche decennio si discute molto di diritti degli altri esseri viventi, e persino dei territori. Farne soggetti di diritto vuol dire, in termini giuridici, farne delle persone. Al fondo di questa estensione dei diritti agisce l’antica reverenza animista per le persone non umane e per l’ignoto. Su queste basi è possibile un dialogo globale. Gli sciamani amazzonici Davi Kopenawa e Ailton Krenak propongono un dialogo con i Bianchi accostando il loro animismo all’ecologia. Kopenawa traduce le sue parole in quelle di popoli non animisti che possono in tenderle alla luce della scienza:
Nella foresta, siamo noi esseri umani a essere l’ecologia. Ma, come noi, lo sono anche gli xa piri [gli spiriti della foresta], la selvaggina, gli alberi, i fiumi, i pesci, il cielo, la pioggia, il vento e il sole! È tutto quello che è venuto all’esistenza nella foresta, lontano dai Bianchi; tutto ciò che non è stato ancora circondato da recinzioni. Le parole dell’ecologia sono le nostre antiche parole […]. I Bianchi, che in passato ignora vano queste cose, oggi iniziano a capirle […]. Adesso dicono di essere gente dell’ecologia perché sono preoccupati di vedere che la loro terra sta diventando sempre più calda.
Mentre nel Rinascimento la magia naturale cede gradualmente il posto alla nuova scienza, l’elemento magico mantiene un ruolo di primo piano nel teatro e nella letteratura. L’episodio di Alcina, che da Boiardo e Ariosto arriva fino all’opera di Händel, mantiene traccia della polemica antimagica cristiana. La maga, mossa dal desiderio e adirata per l’amore negato, trasforma l’umano in bestie, piante e pietre. Invoca spiriti infernali, “ministri di vendetta”. Quando alla fine dell’opera le vittime dell’incantesimo ritrovano le proprie fattezze umane, recuperano una “smarrita libertà”. È il trionfo di un amore autentico contro la cupidità peccaminosa, che si serve della magia per sopprimere la libertà.
Ma il tema della metamorfosi operata da Alcina, e dal suo antico modello Circe, sottende altri sensi. Nelle Metamorfosi di Ovidio, come scrisse Italo Calvino, “c’è una parità essenziale tra tutto ciò che esiste, contro ogni gerarchia di poteri e di valori”. Già Omero allude a una possibile omogeneità interiore degli animali, narrando degli uomini tramutati dalla dea Circe che “di porci avevano e testa e voce e peli e tutto il corpo, ma la mente era intatta”. Di nuovo, l’etnologia indica radici comuni. Nell’animismo amazzonico, umani e altri animali hanno un’identica origine e un’interiorità omogenea. Giaguari e tapiri hanno la loro società, parallela e speculare a quella umana. La continuità del vivente implica pari dignità. Non si tratta qui di magia come tecnica, ma di un modo di abitare un mondo reincantato. Il verdetto antimagico del cristianesimo e della scienza, soprattutto in età moderna, ha preteso di cancellarlo, col risultato di favorire l’idea della Terra come risorsa messa a disposizione degli esseri umani, di pretendere di averne interamente compreso i sensi. A questa tendenza si contrappongono due discorsi capaci di allestire un dialogo globale: quello dell’animismo e quello dell’ecologia di origine darwiniana, che riconosce l’umano come variante di un albero delle specie, né culmine né archetipo. La riscoperta della interdipendenza del vivente svela una condizione che l’idea di una natura padroneggiata cerca di negare. Il mondo è ancora magico.
Paolo Pecere insegna Storia della filosofia all’università di Roma Tre. Si occupa dei rapporti tra scienze e filosofia in età moderna e contemporanea, e scrive narrativa (da ultimo il romanzo Risorgere, Chiarelettere, 2019). I suoi libri più recenti sono: La natura della mente. Da Cartesio alle scienze cognitive (Carocci, 2023), e i saggi narrativi Il dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni (nottetempo, 2021) e Il senso della natura. Sette sentieri per la Terra (Sellerio, 2024).
Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. In questo sesto numero, la rivista riflette sulla Magia, in tutte le sue declinazioni politiche, estetiche, linguistiche
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La copertina e le illustrazioni interne di questo numero, realizzate tramite software di intelligenza artificiale, sono di Lucio Arese.