Di Verena Andermatt Conley
Traduzione a cura di Viviana Sebastio
Il seguente saggio è pubblicato integralmente da Calibano #2 – Mefistofele / Postumano
A un secolo e mezzo dal fiasco alla prima del Teatro alla Scala, nel 1868, il Mefistofele di Arrigo Boito continua a riscuotere un successo internazionale. Sebbene il titolo enfatizzi la figura del diavolo, si tratta di un adattamento musicale della leggenda di Faust: lo studioso con un’insaziabile sete di conoscenza, che non riusciva ad accettare la finitudine umana. Il dottor Faust è stato spesso paragonato a Prometeo, divinità della mitologia greca che dall’Olimpo sottrasse il dono del fuoco per assicurare calore ed energia ai comuni mortali. A differenza dell’eroe mitologico, pare che Faust sia stato un personaggio realmente vissuto nella Germania del Cinquecento, nel 1540 circa. Si ritiene che fosse persona losca, nota per i legami con la magia e l’alchimia, per il comportamento lascivo e per aver stretto un patto col demonio che, nella cultura folklorica tedesca, prende il nome di Mefistofele. La sua storia venne pubblicata per la prima volta nel 1592. Nel 1604 ispirò il poeta Christopher Marlowe per l’opera teatrale La tragica storia del dottor Faust, nella quale al losco personaggio viene tuttavia riconosciuta una certa dignità. Da allora, la leggenda di Faust ha viaggiato in tutto il mondo, con adattamenti per il teatro, la musica, il cinema e, naturalmente, per l’opera lirica. Si può affermare, con ragionevole certezza, che il suo viaggio continuerà anche in futuro.
Dopo la pièce teatrale di Marlowe, il maggior successo giunse con il Faust di Johann Wolfgang Goethe, opera pubblicata in due parti: nel 1808 e, postuma, nel 1832. Goethe eliminò il legame con Prometeo per concentrarsi su un Faust che volle presentare come contemporaneo all’epoca della stesura dell’opera. La prima parte si incentra sul patto del protagonista con il diavolo. Faust può superare la finitudine umana, riconquistare la giovinezza, godere di passioni erotiche sfrenate e raggiungere la felicità, purché si astenga dal dire all’attimo che sta vivendo: “Verweile doch, du bist so schön!” (“Fermati dunque, sei così bello!”). Eppure, Faust non trova la beatitudine agognata. La realtà si rivela distruttiva: Gretchen, l’innocente ragazza di campagna che egli ama e seduce, annega il bambino frutto della loro unione e, inavvertitamente, avvelena la propria madre. La visita di Faust nella mitica Troia e l’amore per Elena, personificazione della bellezza, si rivelano solo un ideale illusorio. Faust, personaggio del suo tempo che cerca di superare la divisione tra il pensiero classico e quello romantico, si rende conto che la vita è fatta di delusioni. Vuole di più. Nella seconda parte, l’elemento soggettivo si ritira a favore di un tema molto più ampio: Faust, diventato il dispotico signore di vaste terre, alla vista non gradita di una misera capanna, causa la morte dei suoi due meritevoli e attempati abitanti, Bauci e Filemone. Dopo aver governato rovinosamente si pente e, con la visita di Cura, si trasforma in un signore generoso, i cui sudditi e terre, secondo le sue previsioni, finalmente godranno del benessere. Faust si rende conto che l’essenza della vita non risiede tanto nei sensi o nel potere assoluto, quanto piuttosto nel domare la natura e la guerra, nello sforzo per rendere il mondo vivibile e nel trovare il modo più consono per farlo. In una lettera a K.J.L. Iken, Goethe scrive:
Che noi ci formiamo è certo l’esigenza principale; a partire da dove avvenga la nostra formazione sarebbe indifferente se non dovessimo temere il rischio di ispirarci a falsi modelli (1827).
Il dilemma del Faust di Goethe, nella Parte I, assume una piega esistenziale. Nella Parte II, la saggezza necessaria per governare con accuratezza lo porta a pronunciare quelle fatidiche parole. Egli riflette sul tipo di governante che vuole essere:
Tanto folto fervore, lo potessi vedere!
In una terra libera fra un popolo libero esistere!
Potrei dire a quell’attimo:
“Fermati dunque, sei così bello!”
Non potrà mai, l’orma dei giorni miei terreni,
per volgersi di eòni scomparire.
Presentando in me quella felicità tanto alta,
ora godo l’attimo mio più alto.
Se la Parte I è la più nota e quella maggiormente letta e rappresentata, la Parte II rispecchia l’epoca di Goethe. Faust diventa signore magnanimo e giusto, un modello per il Diciannovesimo secolo, epoca di rivoluzione e costruzione di nazioni. Faust elogia la libertà e l’esistenza su una terra riconciliata con l’umano. Con Goethe, il Faust del mito si trasforma: attraverso un cambiamento esistenziale, da vecchio studioso astuto, meschino e ingannatore, meritevole della punizione divina, si fa governante politico che supera l’egoismo e l’assenza di cura per acquisire la saggezza necessaria per governare in modo equanime.
Che dire allora del Faust di Boito? Anzitutto, Boito – come Berlioz (1846), Gounod (1859), Liszt (1857) e Schumann (1862) prima di lui – adatta la leggenda alla musica, in particolare ne fa un’opera per la quale scrive finanche il libretto. Il titolo, che conferisce al componimento una parvenza demoniaca e sposta l’accento da Faust a Mefistofele, sottintende la Caduta dell’uomo e la perdita dell’innocenza provocata dalla conquista della conoscenza. In sintonia con il suo tempo, Boito trasforma Faust in un eroe romantico. Se nell’opera è presente la politica, questa è soggettiva e di genere. Se è presente una saggezza acquisita, essa è nella sfera del governo personale e della trasformazione esistenziale. Faust sogna soltanto di essere signore buono e giusto. Ed è nel sogno che pronuncia le fatidiche parole: “Arrestati: sei bello!”
Boito, ispirato da Richard Wagner, si attiene alla trama tradizionale e la semplifica abilmente. Come Goethe, inquadra l’opera nel prologo, con Mefistofele che dichiara a Dio che riuscirà a rivendicare l’anima di Faust. Gli esseri umani sono deboli. Anelano a trascendere la loro finitudine e ad abbandonarsi ai sensi. Nell’epilogo, desideroso di una meta più alta, Faust stesso supera questa condizione e viene così redento. Mefistofele deve riconoscere la propria sconfitta.
Composto e scritto mezzo secolo dopo l’opera di Goethe, il libretto di Boito tratta della debolezza umana, del desiderio di trascendere la finitudine dell’essere e di trovare la redenzione grazie alla volontà di fare del bene e alla consapevolezza, in punto di morte, di aver compiuto scelte esistenziali dubbie. Quando Margherita vuole che Faust diventi un uomo religioso, egli chiarisce, ancora una volta, che l’unico Dio per lui sono i sensi. L’esistenza di Dio per Faust non conta. Egli confonde sensi e vita, come rileva la poetessa contemporanea Carol Ann Duffy, che nel trattare il tema faustiano nel 2002 scrive: “Io godevo lo stile della vita, non la vita”. La ricerca del piacere fine a sé stesso non porterà soddisfazione, così come la ricerca della conoscenza senza saggezza. Faust si rende conto della distruzione che ha provocato nella realtà e che il sogno mitico di una vita con Elena è pura illusione. Immagina così di diventare un governante di popoli giusto:
Sotto una savia legge
Vo’ che surgano a mille
A mille e genti e gregge
E case e campi e ville.
Ed è in questo sogno che Faust trova la calma sperata che sprona il desiderio a eternare il momento. A differenza di Goethe, Boito fa appello a una trasformazione personale, vividamente esistenziale, nel sogno di diventare un governante giusto.
Come ha notato Kierkegaard, poiché il Faust è un’idea storica, la storia va adattata al periodo in cui viene raccontata. La leggenda interpretata da Goethe si rivolgeva a una cultura che cercava di conciliare Classicismo e Romanticismo, nel tumulto delle repubbliche nascenti che andavano sostituendosi ai regimi aristocratici. Il Mefistofele di Boito, invece, viene scritto un decennio prima della pubblicazione dei principali libri di Nietzsche, in un’epoca in cui Dio era messo in discussione attirava l’attenzione sul concetto di una vita che avesse significato
Cosa sarebbe oggi la storia di Faust? Gran parte dei canoni del Diciannovesimo secolo si focalizzano sulla morale borghese e sulla condanna della perdita dell’innocenza, sul costo dell’esperienza e sull’ineluttabilità della morte, sull’esaltazione delle virtù del mito greco e sulla propugnazione degli ideali di governo. Oggi, i ruoli di genere di queste opere appaiono stereotipati, non in ultimo l’innocente vergine di campagna che viene accostata alla dea ideale. Di recente, tuttavia, le letture di orientamento femminista si sono liberate dagli stereotipi dell’eterno femminino di Goethe o dalla celebrazione dell’innocenza di Boito. Quasi quarant’anni fa Donna Haraway pubblicò il suo acclamato Manifesto Cyborg, in cui chiosava con: “Preferirei essere un cyborg piuttosto che una dea”. Sarebbe stata la prima a riformulare il patto faustiano per adeguarlo a un’epoca consapevole delle disuguaglianze sessuali in questioni di genere. Se oggi il governante esemplare di Goethe è necessario ma difficile da trovare, la ricerca spirituale del Faust di Boito è pressoché impossibile da adattare. L’onnipresenza dei sensi è diventata ordinaria in quella che Jacques Rancière chiama “l’età del sensibile”, in cui l’aisthesis ha sostituito la ‘mimesis’ e dove, con l’arrivo del romanticismo, un regime estetico ha soppiantato la controparte aristocratica di un tempo. I ruoli di genere sono fluidi, non più delineati con chiarezza e in una gerarchia, o vincolati da imperativi morali. Per cosa si batterebbe oggi Faust? Vorrebbe superare la sua finitudine? E se sì, come?
Se il Faust di Goethe mirava a diventare un governante buono e giusto, l’analogo di Boito cercava una modalità di esistenza basata sull’autostima, frutto di una trasformazione esistenziale. Tuttavia oggi i modi di essere non sono più quelli dei due secoli passati, la costruzione della soggettività è cambiata. In particolare, in Le tre ecologie (2019), Félix Guattari sostiene che essa è anche storica: una certa soggettività è associata al teatro greco, un’altra all’età dell’amor cortese e al feudalesimo. In collaborazione con Gilles Deleuze, in L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1975), Guattari mostra come la costruzione edipica freudiana sia stata un tutt’uno con il capitalismo e abbia rafforzato il potere della classe dirigente. Secondo Guattari gli esseri umani (ovvero gli esseri umani occidentali) si sono allontanati da quel tipo di soggettività, in parte sotto l’influenza delle tecnoscienze, delle tecnologie digitali, dei mass media e di un’economia neoliberale. A causa del suo patto con il diavolo – che, soprattutto in Boito, è pure la scommessa di Mefistofele con Dio – Faust è stato recentemente visto anche come l’alter ego non tanto di Prometeo quanto del Frankenstein di Mary Shelley. Prometeo offre all’uomo la scelta esistenziale di usare il fuoco per il bene o per il male. Mary Shelley concepisce Frankenstein come uno scienziato folle che vuole creare la vita. Frankenstein travalica i confini creando un altro tecnologico, il cui comportamento violento provoca la morte di chi lo circonda. Frankenstein e la sua creatura saranno per sempre ai margini della società. Faust, al contrario, viene redento sia da Goethe sia da Boito. Oggi, tuttavia, la questione di fondo non è tanto la redenzione o l’esistenza di Dio, quanto chi ha il miglior modo di esistere su un pianeta malato. E questo modo non può non essere rintracciato attraverso la tecnologia che dal 1818, anno in cui Shelley pubblicò Frankenstein, ha una complessità sempre più articolata. La tecnologia porta con sé un’eredità che è sinonimo di ‘altro’ distruttivo, una forza estraniante per l’uomo, che minaccia la vita e il pianeta.
Nel corso dell’ultimo secolo le tecnologie si sono espanse in modo multiforme: quelle industriali prima, quelle digitali poi. Più di tre decenni fa Gilles Deleuze sosteneva che il suo secolo ha visto il passaggio dalle “società disciplinari”, quelle in cui scrivevano Goethe e Boito, alle “società del controllo”. Egli vedeva nell’informazione digitale un nemico che isola e cambia completamente il modo in cui gli esseri umani funzionano nel mondo. Supponeva che questo cambiamento avrebbe reso difficile scrivere libri di filosofia, così come si era fatto per secoli. Eppure, in Le tre ecologie, testo del 1989 e oggi lettura obbligatoria per gli studi ambientali, il collega e collaboratore di Deleuze, Felix Guattari, scrive invece a sostegno delle nuove tecnologie. Contro le soggettività edipico-deterministiche che frenano l’essere umano dall’inventare e dal divenire, che obbligano al rispetto dei ruoli di genere – come in Goethe e Boito – egli afferma che le tecnologie digitali rendono via via possibile una soggettività assistita dal computer. Le vede assistere gli esseri umani nei compiti della quotidianità, rendendoli liberi per modalità di esperienza più arricchenti e gratificanti. In altre parole, Guattari immagina che le tecnologie digitali portino alla creazione di soggettività audaci, indispensabili per una vita ricca e appagante. In un mondo informatizzato, che egli vedeva popolarsi sempre più di linguaggi e segni, esortava il suo uditorio a tenere in considerazione ciò che egli chiamava “concatenamenti enunciativi”, configurazioni di segni che avrebbero presentato altri modi di esistere, sotto forma di un nuovo paradigma etico-estetico incentrato sui sensi e sulle modalità di abitare il pianeta: questo avrebbe addensato ‘verità’ scientifiche per portare l’applicazione della tecnologia nell’invenzione creativa. Le discipline sarebbero in questo modo state condotte a prassi utili a chiedersi: quale mondo è possibile? Guattari, insomma, sosteneva la reinvenzione del mondo attraverso le tecnologie digitali, incoraggiando la creazione di soggettività caleidoscopiche costituite da componenti eterogenee. Articolando il tema prometeico e il mito di Frankenstein, partiva da Walter Benjamin per asserire che la reinvenzione del mondo dovesse portare ancora l’impronta della ‘mano del vasaio’. In altre parole, la tecnologia richiede una dimensione esistenziale, in cui l’attenzione alla materialità dell’uomo e alla singolarità sono fondamentali.
Ispirato più da Ma gli alieni sognano pecore elettriche (1968) di Philip K. Dick, in cui i replicanti si introducono con successo in una società capitalista in decadenza, che dall’isolamento di Frankenstein, Guattari scrisse negli anni Settanta la sceneggiatura di un film, intitolato Un amour d’UIQ (Infra-quark Universe), in cui un alieno si infiltra in una comune di emarginati. L’incontro con l’alieno prende forma. Il suo linguaggio è in grado di disturbare le reti di comunicazione globali. Guattari riteneva possibile trasformare – anzi, riteneva possibile il queering – le soggettività e il loro ambiente con l’aiuto delle tecnologie, e senza alcuna perdita di possibilità esistenziali. Le tecnologie digitali, sosteneva, possono aiutare l’essere umano a reinventarsi attraverso un continuo queering, che secondo le sue stesse parole è un modo di divenire – da intendersi intransitivo. Le tecnologie, quindi, ci permetterebbero di tracciare nuove mappe, nuovi diagrammi, nuove linee di fuga.
La domanda pressante è: in che modo? Guattari, in un’epoca che ha etichettato come “capitalismo mondiale integrato” e che ha criticato per il deterioramento delle relazioni tra umano e non umano, ha preso di mira soprattutto le strutture sociali, degenerate per via dell’appropriazione (o cattura) della soggettività, da parte dei mass media. Il filosofo francese non ha tuttavia vissuto abbastanza per assistere all’avvento dei social media, degli smartphone e ora dell’intelligenza artificiale.
Nel libro La quarta rivoluzione industriale (2016) Klaus Schwab, fondatore del Forum economico mondiale (o forum di Davos), ravvisa una società in transizione sotto l’influsso delle trasformazioni tecnologiche. Delineando punti di discontinuità in cui una determinata tecnologia inizia a essere adottata da un’ampia parte della società, Schwab immagina un mondo con veicoli a guida autonoma, stampa tridimensionale, intelligenza artificiale (AI) e robotica, che produrrà profondi mutamenti, a partire dal 2025.
Nel 2023, l’improvvisa esplosione dell’AI – con chat GPT, GPT4 non solo in medicina e in ambito specialistico, ma anche nella società e nella vita quotidiana –ha colto tutti di sorpresa. Si aggiungano i social media e il web3 che, insieme al resto, consolidano ulteriormente un impatto che alcuni hanno considerato una svolta postumana (N. Katherine Hayles nel 1999; Rosi Braidotti nel 2014) e altri l’hanno denunciato come ‘cattura’ (Brian Massumi nel 2013; Marc N. B. Hansen nel 2016). Laddove Hayles, e in particolare Braidotti, vedono nella condizione postumana un aspetto liberatorio, Massumi e Hansen affermano che questa è invece fatale, in quanto le tecnologie sono sempre cooptate da ciò che definiscono “industria culturale” e da forme di capitalismo sempre più virulente. Il capitalismo, in altre parole, ridurrebbe le soggettività audaci di Guattari a soggetti di interesse. Sempre secondo Massumi, ora che si occupa di creare vita in eccesso per accrescere valore e profitti, il meccanismo capitalistico interviene a livello di nuda vita, cosicché invenzione e innovazione diventano difficili, se non impossibili. Dunque, come sosteneva Goethe, il problema non è la fonte ma il modello, non la tecnologia ma l’uso (inevitabile) che se ne fa nel dominio del capitalismo, il quale, paradossalmente quanto totalmente, contribuisce alla continua reinvenzione di istanze tecnologiche. Secondo Massumi e Hansen quindi il capitalismo cattura e coopta le tecnologie digitali per finalità di profitto in ogni settore, dall’architettura, all’istruzione, dalle arti alla moda alla produzione alimentare. Le tecnologie sono pubblicizzate ed esaltate, non vengono impiegate per l’arricchimento umano né per la produzione di singolarità, piuttosto il loro uso è diretto a classificare, far circolare e consumare.
Le tecnologie digitali, attuate per scoraggiare l’eterogenesi, si pongono agli antipodi della singolarità, dell’autonomia creativa o di qualsiasi tipo di queering al di fuori degli effetti stabiliti dal capitalismo. Secondo Massumi e Hansen, le tecnologie distruggono i rapporti sociali e le relazioni con l’ambiente. Con la distruzione della singolarità, ci inducono a credere in una sorta di eternità, dove la finitudine è bandita. È l’opposto del tema faustiano: Faust non deve chiedere di far fermare il tempo, perché è già stato fermato.
Il Faust di oggi è uno ‘smanettone’ che si affanna per separarsi dalla terra e per pensare che la tecnologia si prenderà cura di tutto. La sua scommessa è raggiungere la completa immaterialità. Tuttavia va da sé che l’essere umano, che sia postumano o postumanista, non può vivere del tutto separato dalla terra o ancorare la sua salvezza all’innovazione tecnologica. A differenza del dilemma che affliggeva Boito, la questione non è tanto se Dio esiste o se possa salvarci, quanto chi è che vive meglio? E questa domanda porta con sé un senso di urgenza.
L’umanesimo è stato smascherato per aver generato il capitalismo, il colonialismo, il dominio sulle minoranze e la distruzione della natura. È stato inoltre dimostrato che l’uomo non si trova in cima a una grande Scala naturale, bensì si situa in mezzo alle tante creature che vivono intrecciate le une alle altre. Le tecnologie ci hanno rivelato le qualità della materia e della materialità, mostrando anche che l’essere umano è parte di quel mondo da cui credeva di essere uscito. Le tecnologie rivelano, dunque, i processi e gli assemblaggi di cui gli esseri umani sono scarsamente consapevoli, dimostrando che il mondo è un continuum palpitante e che la coscienza non è che la punta di un iceberg che ne perfora la placida superficie. Se Faust oggi da ‘smanettone’ stringesse un patto con Mefistofele, chiederebbe di diventare immortale e del tutto immateriale. Vorrebbe potersi muovere senza incontrare la minima turbolenza dentro il levigato spazio del capitale. È alquanto improbabile che sceglierebbe di riscattarsi trasformandosi in politico, mestiere che ha ormai perso il suo fascino ed è pressoché impossibile da praticare nell’attuale realtà multipolare. Desidererebbe diventare uno dei re della tecnologia.
Per riscattarsi, non più immerso in un’aura di clamore e competizione distruttivi, dovrebbe preoccuparsi di reintrodurre nella vita quotidiana la qualità e non la quantità. Non c’è un Dio che possa salvarlo, deve quindi scoprire da sé come eliminare la distruzione che egli stesso ha provocato. Tornerebbe alla frase che Goethe scrisse nella lettera a un amico: non è la fonte della conoscenza, ma il modello che interessa. E qui il modello è economico, accompagnato dalla costruzione di un soggetto di interesse. Faust dovrebbe superare tale modello e rendersi conto, come ha sottolineato Jussi Parikka (2015), che l’uso di tecnologie elettrico-elettroniche non può essere praticato senza il petrolio e che le batterie sono fabbricate con metalli preziosi, spesso estratti in modo invasivo. Le nuove tecnologie, lungi dall’essere immateriali nel loro attuale impiego, contribuiscono al riscaldamento globale e alla desertificazione. Questi ultimi, a loro volta, costringono le persone all’abbandono del proprio ambiente e a intraprendere perigliosi viaggi migratori. E c’è da aggiungere che per una questione di accessibilità, le tecnologie privilegiano solo una parte della popolazione mondiale, a discapito di un’altra.
L’odierno Faust, assetato di conoscenza, non deve rinunciare al complessivo potenziale della tecnologia. Egli (il pronome è scelto di proposito) deve imparare a ragionare sull’impatto che ha su vite umane e non umane, e sul pianeta. Goethe speculava sui modelli di cultura greca e latina, sulla mescolanza di classicismo e romanticismo. L’odierno Faust ha un mondo intero da tenere in considerazione, ricco di molteplici fonti, storie e racconti. E, visto che ormai è risaputo che l’attuale modello capitalistico è distruttivo, egli dovrà deviare verso altri. Per citare ancora una volta la poetessa Carol Ann Duffy: “Non può soltanto adottare uno stile di vita; ha bisogno di una vita”.
Il miglior modo di esistere manterrà gli esseri umani e non umani desti nel meditare sul come vivere con le tecnologie, come costruire soggettività assistite dal computer, pensando allo stesso tempo alle componenti materiali e alle loro conseguenze. Si tratta di conservare la singolarità, avere consapevolezza della finitudine e della fragilità, e prendersi cura dell’ambiente. Comunque, non dall’alto verso il basso: Faust non può trasformarsi semplicemente in un governante carismatico. Oggi anche il coro vuole sedersi al tavolo. Faust, superando il suo desiderio di immaterialità, si deve occupare della cura, vale a dire di un ethos, di un impegno politico, e coltivare la pratica del divenire.
Verena Andermatt Conley scrive e insegna presso il Dipartimento di Letteratura Comparata dell’Università di Harvard. Attualmente si occupa di relazioni tra ecologia e tecnologia. Tra i suoi libri ricordiamo Ecopolitics. The Environment in Poststructuralist Thought; Spatial Ecologies: Urban Sites, State and World Space in French Cultural Theory; Rethinking Technologies (ed); un memoir creativo, The War Against the Beavers; un romanzo, Cree: To Believe in the World. Autrice di numerosi articoli e capitoli di libri, sta ultimando Care Tactics, in uscita nel 2025.
Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. In questo secondo numero, la rivista si interroga sul superamento della finitudine umana ispirandosi al Mefistofele di Arrigo Boito e alla figura di Faust nella storia della cultura.
Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma.
Le illustrazioni interne di questo numero sono di Merzmensch in dialogo con Midjourney e DALL-E 3