di Patricia MacCormack
traduzione di Valentina Rapetti
Il seguente saggio è pubblicato integralmente da Calibano #4 – Peter Grimes/L’outsider
Tutta l’esistenza è relazionale, nel micro e nel macrocosmo. Il Sé è un’alchimia di elementi, un granello minuscolo in una miriade di forme di vita, specie, organismi e mondi che costituiscono assemblaggi molteplici sulla Terra e nel cosmo. L’antropologia, la sociologia e la psicoanalisi studiano la vita collettiva come fenomeno inevitabile dell’esistenza. Essere parte di una collettività implica vivere in un sistema nel quale si nasce, come il linguaggio, un sistema innato che si sovrappone ad altri finché l’Io non prende forma in un palinsesto di sistemi di significazione – prima la famiglia (edipica), poi le istituzioni eterotopiche come la scuola, i dispositivi moralizzanti della religione e del capitalismo, gli apparati ideologici che regolano in modo arbitrario la società e quelli aggressivi dello Stato e della nazione. Stare dentro, appartenere, significa aderire a uno strato di coerenza che attraversa queste geologie del conformismo riducendo il Sé a una mera traccia, una venatura minerale, un filo obliato d’immaginazione sacrificato alle convenzioni in cambio dell’agiatezza o di una promessa di ascesa al potere.
A differenza degli epistemi elencati sopra, l’arte e l’attivismo liberano il Sé dalle strutture in cui nasce, denunciandone il potere coercitivo. Contrariamente a ciò che si pensa, l’outsider non è un individuo eroico. L’eroe è colui che più di ogni altro aderisce ai sistemi; crede nel sogno del capitalismo, nutre la fantasia di portare il potere agli eccessi iperbolici del narcisismo e dell’idolatria. L’outsider, invece, non obbedisce né al sistema, né ai regimi di significazione che lo identificano senza tuttavia riconoscerlo. La sua disobbedienza non consiste nel mero rifiuto delle regole, né nella trasgressione illecita, bensì nell’affermazione della propria esistenza. L’outsider intesse relazioni non conformi, genera microcosmi e macrocosmi alternativi, è una creatura queer della propria specie e per i gruppi e le famiglie in cui nasce. È una sorta di essere selvaggio, un trovatello dell’ecologia, un’entità cosmica. Non valgono le connotazioni come ‘buono’ o ‘cattivo’, né quelle di libertà o prigionia; l’outsider oltrepassa l’orizzonte dei mondi noti.
Nel racconto The Outsider (L’estraneo, 1926), Howard Phillips Lovecraft ricorre a una strategia di mascheramento giocata sulle aspettative del lettore: lungo il corso della narrazione, il protagonista lamenta la propria estraneità a un mondo luminoso, descritto in uno stile sontuoso; poi, solo all’ultima riga, quando si guarda allo specchio, il protagonista si rende conto che il mostro della storia è proprio lui. Il mondo è normale; lui, il protagonista, no. Il personaggio mostruoso di Lovecraft ne evoca altri: il Peter Grimes di Benjamin Britten, il Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, ma anche Janet Tyler, la protagonista dell’episodio Eye of the Beholder (È bello quel che piace, 1960) della serie televisiva The Twilight Zone (Ai confini della realtà, 1959-1964). Questi personaggi ci ricordano che esistono mondi altri, sistemi di valori alternativi, percezioni difformi della realtà. Mentre la normalità si staglia su un unico piano esperienziale ed esistenziale, i modi in cui queste figure di outsider vengono percepite rivelano una natura barocca della percezione, fatta di pieghe sovrapposte che si dipanano e ricombinano senza sosta per alterare continuamente la realtà, riflettendo la vita nella sua costante metamorfosi. I regimi di significazione egemonici rendono normative le proprie leggi arbitrarie per occultare il conformismo e il controllo cui mirano e per preservare strutture gerarchiche che rifuggono tali modalità barocche di percezione. L’outsider, tuttavia, non occupa il gradino inferiore della gerarchia; è una creatura liminale, marginale, che vive negli spazi intermedi, nei vuoti interstiziali del caos e degli affetti clandestini.
Perché le figure di outsider vengono rappresentate così spesso come esseri disturbati o marginalizzati, come eroi mancati a causa del loro rifiuto di obbedire alle regole? Porsi questi interrogativi genera una percezione distorta dell’outsider, indotta da un’arte che nega la catarsi. Dovremmo piuttosto chiederci: chi desidera appartenere, e a cosa? Dove si annida il desiderio di appartenenza? L’outsider è il più queer dei vagabondi, non in senso ontologico, ma perché i suoi desideri non hanno ancora assunto la forma di soggettività specifiche o manifestazioni del potere. L’outsider è corpo in movimento, identità in divenire che vaga senza sosta e senza meta. Non hanno sempre fatto così anche le streghe, le donne selvagge, i corpi che non si conformano e dunque non contano? Quelli che creano comunità fuori dal comune insieme alle piante, agli alberi e agli animali? Noi mostri scegliamo i nostri simili anziché gli esseri umani, perché i mostri come noi non hanno regole, né ci chiedono di seguirle. Nel romanzo apocalittico di Mary Shelley The Last Man (L’ultimo uomo, 1826), il protagonista Lionel Verney piange l’estinzione della specie umana mentre vaga su un Terra spopolata. In Frankenstein, la creatura s’immerge nel paesaggio, nell’ecosistema e nella fauna, ma anche nei libri, nella musica e nell’arte, esperendo una dimensione paradisiaca; è solo quando cerca il proprio posto nella società che inizia a soffrire. Possiamo, come dicono Gilles Deleuze e Félix Guattari, creare “alleanze innaturali” con la natura. Del resto, come sostiene Baruch Spinoza, il fondamento dell’etica risiede nell’unione di due entità che pur essendo diverse si fondono per via di un insondabile sentire comune, generando legami affettivi che prescindono dalla capacità del linguaggio o della rappresentazione di creare comunità o società. È nell’ibridazione che l’outsider incontra il proprio divenire.
Per l’outsider non c’è posto né attrattiva nella società umana, nel neocapitalismo, nella famiglia, nella chiesa o nello Stato, tutte necropoli dell’arte e del desiderio, ziggurat costruite per l’ascesa sociale di soggettività esanimi, dove il capitalismo coincide con l’apocalisse. Vivere da outsider è fondamentale in questo momento in cui arte e attivismo stanno diventando sempre più intercambiabili. Le pratiche di attivismo lecite e consolidate devono operare all’interno di un sistema che le autorizzi e le convalidi, un sistema che l’attivismo non può cambiare e dentro il quale non può prosperare. L’attivismo appartiene all’outsider; praticarlo dentro il sistema significa condannarlo a essere incorporato e soffocato nel greenwashing, nella sostenibilità, nell’uguaglianza e in tutte le retoriche che il tardo capitalismo usa per trasformare gli attivisti in lotofagi. Per trovare strategie che impieghino l’immaginazione al di fuori di sistemi riconoscibili di azione e rappresentazione, chi fa attivismo deve pensare come l’artista. Noi, gli outsider, siamo creature invisibili e clandestine. L’arte non è tale se asservita all’economia. L’arte genera il mai-visto-prima, scavalca i regimi di significazione, trasforma lo spettatore, il lettore, l’ascoltatore. Come l’attivismo, accelera la metamorfosi in outsider. Se non desideriamo essere accettati e contare all’interno del sistema, cosa succede quando usiamo l’arte come forma di attivismo per raggiungere la condizione di outsider? Possiamo generare collaborazioni non normative, comunità scevre dal comando, alterità infinite e infinitesimali dentro di noi e tra i nostri corpi, in modo che tutto sia differenza. Queste ondate affettive possono produrre cambiamenti in modo rizomatico, creando spazio per altre figure di outsider fin quando ci sarà solo il Fuori, e la divisione tra interno ed esterno si dissolverà. Il rizoma scompiglia la gerarchia mettendo tutto in connessione; se non c’è nulla che escluda o includa, diventiamo una vibrante indeterminatezza cosmica di affetti.
Chi desidera essere ‘incluso’, chi desidera ‘stare dentro’? Si è outsider per scelta o perché si viene marginalizzati? È una forma radicale di rottura abbracciare la propria condizione di estraneità in quanto donna, queer, persona razzializzata, disabile, animale non umano, o qualsiasi altro corpo collocato in posizione subalterna nella piramide della normatività? È tempo di smettere di desiderare i limiti e le promesse dell’uguaglianza che ci viene concessa dai vari regimi di significazione, che ci impongono di descrivere minuziosamente le nostre identità per assegnarci un posto nella gerarchia, incitandoci a lavorare e sforzarci di più per scavalcare il prossimo. Questi regimi convertono il desiderio in potere, valorizzano l’oggettificazione dell’essere, e riducono flussi di energia a soggettività definite. Sì, vivere da outsider è difficile, ma non più di giacere catatonici alla base della piramide e sentirsi dire che quel posto dipende da una colpa individuale – del corpo, di nascita, della famiglia. È molto più appagante entrare e uscire dal mondo e dai suoi infiniti organismi in una danza bacchica di attivismo artistico e immaginazione.
Conoscersi a fondo significa consegnarsi alla morte, ottenere validazione dalla società, ma sottrarsi al mondo. Meglio abitare e prosperare in un universo brulicante di vita, libero dal linguaggio e dalla rappresentazione, dalla politica identitaria e dalla schiavitù della sete di potere. Essere tutt’uno con i mostri, gli animali, i non umani, ma mai uguali a loro. In questo mondo ne esistono tanti altri, molto più degni del nostro interesse. L’outsider è il potenziale puro del desiderio e può insegnarci che ciò che siamo stati addestrati a desiderare non offre che catene, nonché lo sforzo costante per guadagnarsi l’accesso a un sistema logoro. Femministe, attivistə queer, anticolonialisti, ecoguerriere, antispecisti, persone con disabilità: esprimiamo la nostra indescrivibile alterità. Siamo noi i mostri additati dai protagonisti lovecraftiani, con i nostri corpi frementi, madidi, vibranti, umidi e non conformi che danzano per alterare i sistemi di potere. Il futuro appartiene a chi sta fuori.
Patricia MacCormack è docente di Filosofia Continentale presso l’Università Anglia Ruskin di Cambridge, Regno Unito. Ha pubblicato Cinesexuality (Routledge 2008) e Posthuman Ethics (Routledge 2012) e ha curato The Animal Catalyst (Bloomsbury 2014), Deleuze and the Animal (EUP 2017), Deleuze and the Schizoanalysis of Cinema (Continuum 2008) e Ecosophical Aesthetics (Bloomsbury 2018). Il suo più recente libro è The Ahuman Manifesto: Activisms for the End of the Anthropocene.
Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. In questo quarto numero, la rivista riflette sul tema dell’outsider a partire dalla figura di Peter Grimes, protagonista dell’omonima opera di Benjamin Britten.
Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma.
Le illustrazioni interne di questo numero sono di Elena Manferdini.