di Mattia Giusto Zanon
Il seguente saggio è stato scritto per Calibano #1 – Madama Butterfly/L’Orientale
È curioso da pensare, ma anche il pianto va analizzato. Sì, perché non sempre è uguale, tra le lacrime si possono nascondere sottigliezze, che rivelano a seconda del soggetto in questione e dell’occasione, significati molteplici, diversi e sfaccettati. Potrebbe trattarsi di un ricatto emotivo, oppure di lacrime sentite – che all’interno di una lezione in una classe scolastica, per esempio – potrebbero servire a portare avanti un discorso oppure a distrarre l’attenzione generale da quest’ultimo dirottandola su un particolare insignificante, e che perciò va trascurato, a volte anche con chirurgica freddezza.
È la riflessione al centro di Tempo per piangere, un capitolo preciso di Insegnare il pensiero critico, l’ultima traduzione uscita ad oggi in Italia, da pochissimo, di un testo di bell hooks, al secolo Gloria Jean Watkins (1952-2021), studiosa americana di culto il cui intero lavoro si è soffermato sull’intersezionalità di razza, sul capitalismo, le questioni di genere e sul modo in cui si perpetuano i sistemi di oppressione e il dominio di classe. Intellettuale femminista e docente, autrice di una quarantina di libri, hooks ha insegnato in prestigiose università statunitensi, ricevendo riconoscimenti internazionali per i suoi lavori, tradotti in svariate lingue. Questo suo testo si interroga sul nesso fra scuola e democrazia e segue Insegnare a trasgredire e Insegnare comunità, da poco pubblicato nella stessa collana “Culture radicali” da Meltemi, a completamento della trilogia dedicata da hooks all’insegnamento dentro e fuori le aule.
E sono proprio le aule di scuola, palestre in cui si plasmano le menti delle nuove generazioni, il terreno di battaglia su cui riflette hooks, sollevando vari punti, tra cui uno interessantissimo: nonostante ragionare apertamente sulle nostre fragilità possa aiutare noi e gli altri, viviamo pur sempre in un contesto fortemente sessista e connotato, che non spinge, per quanto lo vorrebbe ad esempio un’insegnante donna a lasciarsi andare all’emotività di fronte a una classe, pena il ricadere in uno stereotipo di fragilità femminile precostituito e al quale non vuole certo aderire. Il pianto, e con questo lo sfogo dell’emotività, assume così una valenza simbolica, trascendente, che va molto al di là della semplice azione, e anche, di fatto, una connotazione politica, battagliera, che dà ampio spazio a interpretazioni.
Se fin qui qualcuno avesse dato un paio di alzate di ciglia, no, non erano refusi: “bell hooks” si scrive proprio così, con le minuscole, e per sua scelta. Donna, nera, figlia di operai, ha sempre usato questo pseudonimo per licenziare i suoi testi, dove bell era il secondo nome di sua madre e di sua bisnonna, mentre il secondo era il cognome di quest’ultima. Tutto in minuscolo. Un omaggio alle sue ave, per riscattare la vita delle donne vissute in schiavitù, ma anche un understatement e assieme un invito: non è la centralità della persona che sta scrivendo o parlando a contare, ma il contributo che può portare alla comunità attraverso ciò che sta scrivendo. In sostanza, un invito a non guardare al suo nome, a non dargli troppa importanza, ed evitando il più possibile le lusinghe malsane dell’autoreferenzialità.
Nata a Hopkinsville, Kentucky, nel 1952, in una famiglia in cui regnavano dinamiche tipicamente patriarcali e violente, incarnate dalla figura paterna, hooks trascorre i primi anni di scuola immersa in un contesto di segregazione razziale assoluto, al punto da raccontare di aver incontrato una persona bianca per la prima volta quando aveva sedici anni. È proprio in un contesto simile, sociale e familiare, pubblico e privato che lo sguardo di bell si allena a smascherare i giochi di forza dettati da un potere egemone costruito non solo sulla gerarchia razziale, ma anche su quella di genere. E forse è proprio lì che nasce la scintilla della teoria che porterà avanti per tutta la vita.
Ed è sempre in questa giungla fatta di emozioni represse e maschilismo che si inserisce anche La volontà di cambiare, pubblicato di recente per la prima volta in Italia da il Saggiatore (che ha dato alle stampe anche Tutto sull’amore e nei prossimi mesi pubblicherà anche Communion, opera cardine di hooks sinora inedita nel nostro Paese). In La volontà di cambiare, hooks indaga la mascolinità nel suo rapportarsi con la violenza, la repressione delle emozioni e l’affettività trascurata. Già nell’introduzione, riflettendo sul fatto che la maggior parte delle donne ha vissuto la relazione col proprio padre in termini di paura, oppressione, mancanza di confidenza, hooks si chiede come mai il femminismo non abbia saputo o voluto tentare una lettura del mondo maschile se non attraverso la lente della violenza, rinunciando a esplorare in profondità il rapporto vissuto con esso nei vari ruoli di madri, mogli, figlie, sorelle, e rifiutando di creare uno spazio di riconciliazione tra i due sessi.
«Pensare è un’azione», dichiara hooks, e il «pensiero critico implica prima di tutto scoprire il chi, cosa, dove, quando e come delle cose e poi utilizzare quella conoscenza in modo tale da consentirci di stabilire ciò che conta di più». E il pensiero critico fa realizzare a hooks che forse le donne non sono poi tutte uguali, e perciò le rivendicazioni non possono essere sempre ingenuamente le stesse: occorre tenere conto delle singole identità e appartenenze. Prendere coscienza delle diverse identità. Ripudiando un’analisi banalizzata delle caratteristiche che definiscono l’essere donne viziata per troppo tempo dall’illusione della “sorellanza a ogni costo”, anche perché a volte è questa che impedisce di mettere in atto un’alleanza onesta che parta proprio dalla comprensione delle differenze, rischiando così invece di replicare gli stessi schemi di potere imposti per anni dai sopraffattori. Ed è proprio bell, tra il 1972 e il 1973, a scardinare per prima l’identità univoca assegnata al concetto di donna, e già solo per questo, meriterebbe una bella rilettura.
Mattia Giusto Zanon è giornalista professionista. Scrive per alcune delle principali testate nazionali e internazionali come “Harper’s Bazaar”, “Il Venerdì di Repubblica”, “Internazionale” ed “Esquire”, dove si occupa soprattutto di Cultura e fenomeni sociali. Vive tra Roma e Venezia. È stato finalista del Premio Papa Ernest Hemingway 2020, del Premio Calvino Racconti 2021, e nel 2022 ha ricevuto la Menzione d’Onore del Ministero degli Affari Esteri italiano e dell’Istituto Italiano di Cultura di Caracas per la sceneggiatura del cortometraggio Las Aguas Vuelven.
Calibano – L’opera e il mondo è la rivista del Teatro dell’Opera di Roma. Nata come spazio di approfondimento e di dibattito intorno a temi di attualità sollevati a partire dagli spettacoli in cartellone e realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, il progetto editoriale prevede, ogni quattro mesi, la pubblicazione e la diffusione nelle librerie italiane di un volume monografico dedicato a un titolo d’opera e a un tema ad esso collegato, attraverso la commissione di saggi, racconti e recensioni di firme autorevoli. In questo primo numero, dopo Aida/Blackface, la rivista si interroga sulle forme di fascinazione europea per il Giappone e viceversa a partire dalla celebre opera di Giacomo Puccini, Madama Butterfly.
Potete acquistare “Calibano” sul sito di effequ a questo link, in libreria e presso lo shop del Teatro dell’Opera di Roma.
*L’immagine di copertina è stata creata da Francesco D’Isa in dialogo con Midjourney